L'Italia dei cognomi

La politica anagrafica dello stato post-rivoluzionario, a differenza di quella tradizionale ecclesiastica, non concederà, infatti, alcun margine di negoziazione in ...
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L’Italia dei cognomi L’antroponimia italiana nel quadro mediterraneo a cura di A. Addobbati, R. Bizzocchi, G. Salinero

L’Italia dei cognomi : l’antroponimia italiana nel quadro mediterraneo / a cura di A. Addobbati, R. Bizzocchi, G. Salinero. - Pisa : Pisa university press, 2012 929.42 (22.) I. Addobbati, Andrea Cognomi italiani

II. Bizzocchi, Roberto

III. Salinero, Gregorio

1.

CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa

In copertina Vittore Carpaccio, Commiato degli ambasciatori, Venezia, Gallerie dell’Accademia (particolare)

La pubblicazione è stata realizzata con il finanziamento dell’Università di Pisa al progetto di ricerca d’Ateneo 2007 “Orgine e storia dei cognomi italiani”. Le ricerche contenute nel presente volume sono state possibili grazie al sostegno finanziario dell’Università di Pisa, dell’Université Paris I Panthéon-Sorbonne, e della Universidad de Extremadura-Cáceres. Ciascun saggio è stato sottoposto a doppio referee anonimo.

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ISBN 978-88-6741-001-9 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org

Indice

Introduzione A. Addobbati

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I. Approcci e strumenti I cognomi italiani fra società e istituzioni R. Bizzocchi

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Recherche de la stabilité et recherches sur l’instabilité anthroponymique moderne G. Salinero

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I cognomi italiani nel Medioevo: un bilancio storiografico S. Collavini

59

Situación y perspectiva de los estudios de antroponimia en la España Moderna R. Sánchez Rubio, I. Testón Núñez

75

I cognomi italiani: un profilo linguistico C. Marcato

123

I cognomi italiani: un profilo giuridico E. Spagnesi

137

Les noms de famille lusophones: une lecture anthropologique J. de Pina-Cabral

155

Anthroponymie et statistique: quelques outils d’analyse P. Chareille

169

La distribuzione dei cognomi come strumento per l’analisi sociale: l’esempio della docenza universitaria P. Rossi

203

Un progetto di analisi statistica dei dati genealogici relativi a Montecarlo di Lucca in età moderna S. Nelli, P. Rossi, R. Bizzocchi

209

II. Verifiche Precocità dell’affermazione del cognome nel Piemonte medievale S. Barbero

215

Ego Synibaldus. Per una storia della denominazione in Sicilia tra medioevo e età moderna. Corleone (1264-1593) R.L. Foti

231

Denominarsi e distinguersi nella montagna bergamasca. I cognomi di Castione della Presolana dal XIII al XVI secolo A. Poloni

305

Il cognome nei registri parrocchiali pre-tridentini dell’Italia settentrionale e gli effetti del Concilio di Trento G. Alfani

325

Come mai certi individui non hanno cognome? Pratiche di registrazione a Venezia attorno al Concilio di Trento J-F. Chauvard

345

Dal nome al cognome: la metamorfosi dei gruppi di discendenza. L’esempio dell’Italia meridionale G. Delille

365

Il cognome in Sardegna: riflessioni storico-linguistiche S. Pisano

379

“Il costume di esservi famiglie senza cognome”. Il caso dell’Abruzzo teramano nella prima metà dell’800 F.F. Gallo

399

III. Il caso toscano Un case-study: Montecarlo in Valdinievole dal Medioevo all’Ottocento S. Nelli

425

I cognomi nei registri dei battesimi di Pisa (1457-1557) I. Puccinelli

441

I cognomi della montagna pistoiese in età moderna L. Peruzzi

455

Fissazione e trasmissione dei cognomi in una città nuova (Livorno, XVI-XVII secc.) C. La Rocca

465

La memoria dei sacramenti. Un nuovo strumento per l’utilizzo delle registrazioni anagrafico-sacramentali nel campo dell’onomastica familiare G. Camerini

487

IV. Minoranze Per la storia dei cognomi ebraici di formazione italiana M. Luzzati

497

I nomi di famiglia nelle Valli valdesi S. Rivoira

511

I cognomi del popolo rom E. Novi Chavarria

531

L’anthroponymie et les minorités: le cas morisque B. Vincent

547

Les prénoms de famille: identifier en milieu xueta (Majorque) au XVIIe siècle E. Porqueres i Gené

561

Rinominarsi nell’Ottocento e nel Novecento M. Lenci

574

Abstracts

593

Indice dei nomi

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Introduzione Andrea Addobbati Università di Pisa

La presente raccolta di saggi curata da Roberto Bizzocchi, da Gregorio Salinero e da chi scrive è uno dei primi risultati di un percorso d’indagine in linea con le più aggiornate ricerche internazionali in materia d’antroponimia e storia dell’onomastica, sia per l’impianto metodologico interdisciplinare, sia per le questioni sollevate intorno all’oggetto d’indagine, sia per la valutazione dei risultati in un quadro articolato di comparazioni con le altre realtà dell’Europa latina. Al centro delle riflessioni del gruppo di ricerca è il problema specifico del cognome, o nome di famiglia: quando si è formato? E in relazione a quali esigenze? La sua adozione è stata un’acquisizione definitiva, o ci sono state forme di denominazione concorrenti che ne hanno limitato e contrastato l’affermazione? Una serie d’interrogativi su cui si sono cimentati specialisti di diverse discipline, dai linguisti, cui tradizionalmente compete il campo dell’onomastica, agli storici e agli antropologi, più portati ad indagare i contesti economico sociali del fenomeno e tutte le loro implicazioni culturali, ai giuristi e storici del diritto, ai demografi, agli esperti di statistica e di genetica. Tenendo presente gli studi condotti in ambiti linguistici e culturali diversi dal nostro – specie in quello anglosassone, che vanta in proposito una certa tradizione legata per lo più agli interessi genealogici della sua storiografia –, gli autori dei saggi contenuti nel volume hanno innanzi tutto delimitato il campo d’indagine all’area culturale latina, prestando poi speciale attenzione all’antroponimia storica dell’Italia, cui sono state dedicate approfondite indagini documentarie e case studies che rendono quanto mai urgente una profonda revisione di molti assunti teorici fin qui invalsi. Per quanto nuove e interessanti, almeno a giudizio di chi scrive, le ricerche che andiamo presentando non sorgono tuttavia dal nulla, si pongono, infatti, in prosecuzione ideale di un ben consolidato indirizzo di ricerca, il quale, senza poter disporre di una massa di dati e di una letteratura tanto vasta come quella che contraddistingue la tradizione anglosassone, ha tuttavia al suo attivo due puntualizzazioni teoriche significative nella

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Andrea Addobbati

cospicua raccolta di studi coordinata da Monique Bourin alla fine degli anni Ottanta (Genèse médiévale de l’anthroponymie moderne), e nelle più recenti ricerche del gruppo franco-iberico coordinato da Gregorio Salinero (Un juego de engaños, 2010). Entrambi questi contributi, e in particolare il secondo, ripensando i processi di cognominazione alla luce dei fenomeni migratori, hanno messo fortemente in discussione l’idea di una sostanziale stabilità antroponimica nel corso del tempo, che, solitamente tenuta per presupposto, aveva indotto ad esempio i genetisti a identificare nel cognome un marcatore tutto sommato non problematico dell’eredità genetica. La proposta di Roberto Bizzocchi d’indagare in maniera sistematica e interdisciplinare la questione del nome di famiglia data da diversi anni, ma è solo nel 2008 che un primo gruppo di studiosi, in gran parte giovani, ha potuto raccogliere la sfida. Ottenuto un finanziamento dall’Università di Pisa, il gruppo ha potuto iniziare le sue ricerche aggregando diversi altri colleghi italiani. In un secondo tempo, avvertendo la necessità di un confronto con gli studi condotti in altri ambiti nazionali, il gruppo italiano ha avviato un proficuo rapporto di collaborazione con «Mobilité et Anthroponymie», il sopra ricordato gruppo di specialisti coordinato da Salinero e formato da studiosi e ricercatori dell’Università di Extremadura, dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dell’École Française di Roma e infine dell’Università Parigi I - Sorbonne, che ha ritenuto di partecipare al progetto pisano, sia sul piano scientifico, sia condividendone gli oneri. La collaborazione internazionale ha permesso di fare il punto sullo stato della ricerca italiana, e di raffrontarla con i problemi incontrati dai ricercatori che operano in Francia e in Spagna. L’acquisizione più rilevante dal punto di vista della costruzione di un quadro teorico relativo al caso italiano è stata la presa d’atto di una spiccata indeterminatezza del processo di diffusione e fissazione del cognome, se paragonato a quel che avviene nel resto dell’Europa latina, e anche di una profonda frattura, almeno dal punto di vista delle evidenze documentarie, tra l’Italia Settentrionale e quella Centrale. Nel Mezzogiorno, nonostante la ricerca in questo caso non disponga ancora di dati sufficienti, l’avvento del cognome sembra che abbia seguito una periodizzazione più in linea con quella riscontrata al Nord. Le diversità regionali appaiono quindi piuttosto marcate, con una precocità della fissazione ereditaria a Venezia, nelle aree urbane della Lombardia padana e anche in Piemonte dove la generalizzazione dell’uso del cognome pare aver preso le mosse già nel

Introduzione

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XIII secolo, per affermarsi completamente agli inizi del XVII, in un’epoca in cui le popolazioni dell’Italia Centrale (Toscana, Marche, Romagna, Abruzzi) sono invece ben lontane da questo cambiamento antroponimico. Al centro della Penisola, infatti, specie nelle aree rurali, permangono per buona parte dell’Età Moderna, e spesso sono prevalenti, forme d’identificazione alternative, ottenute affiancando al nome di battesimo specificazioni patronimiche, toponomastiche, soprannomi, indicazioni di mestieri e appellativi diversi, che se in alcuni casi possono assolvere la stessa funzione del cognome, e designare il lignaggio d’appartenenza, non sono però ancora divenute delle designazioni stabili e ereditarie. La spiegazione di questo “ritardo” pare che debba essere ricondotta ad un concorso di cause, da una parte alla prassi amministrativa, più omogenea e uniforme al Nord, ma dall’altra alla dialettica infracomunitaria, che assume diversa strutturazione a seconda delle modalità di insediamento sul territorio, del particolare regime della proprietà, delle varie articolazioni economico-sociali, favorendo quelle forme di auto-rappresentazione dell’individuo più appropriate al contesto in cui devono essere spese. D’altra parte, le designazioni alternative non sono di per sé motivo sufficiente per supporre che le regioni che ne sono interessate vadano del tutto esenti da forme cognominali. Si deve invece pensare, nella maggioranza dei casi, al fenomeno della «evanescenza documentaria» del cognome, il quale, lungi dall’essere l’elemento cardine, di uso universale in ogni procedimento d’identificazione – come dimostra eloquentemente la persistente prassi burocratica di indicizzare i repertori di cancelleria al nome di battesimo – è solo uno dei molti elementi connotativi del nome, più utile per alcune funzioni civili, e molto meno per altre. La riconsiderazione del cognome, inteso d’ora in poi come una designazione familiare suscettibile di modificazioni, di connotazioni che lo specificano – e spesso lo soppiantano –, e la cui ereditarietà resta esposta alle vicissitudini storiche della famiglia – come il genotipo alla mutazione di un gene –, ha introdotto, con gli studi di cui si discorre, una nuova visione dei processi di cognominazione. Le stesse apparizioni storicodocumentarie di sistemi cognominali alternativi non possono più essere interpretate come le spie di stadi evolutivi qualitativamente differenti all’interno di un processo tutto sommato unitario e coerente, i cui esiti siano già compiuti, e in maniera irreversibile, verso la fine del Medioevo. Né possono essere spiegate in maniera semplicistica addebitandole alla negligenza e trascuratezza degli ufficiali, ecclesiastici o secolari, preposti all’identificazione; aspetto che pure occorre rilevare e tenere presente,

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Andrea Addobbati

ma che rimanda piuttosto ad un’incertezza di ordine relazionale che chiede di essere spiegata, e non ad una circostanza accidentale e in fondo ininfluente rispetto alla “fatale” omologazione delle procedure. Dalle molte ricerche contenute nel volume, e specie dalle indagini microstoriche che focalizzano l’attenzione su alcune piccole comunità (Montecarlo di Lucca, Castione della Presolana, Corleone, la Montagna Pistoiese ecc.) il nome di famiglia acquista, in una prospettiva diacronica di lungo periodo, le sembianze di un proteo, le cui metamorfosi presentano una casistica tanto varia quanto gli eventi che le suscitano, legati alla vita economica e sociale, alle ripartizioni delle proprietà, alla loro trasmissione ereditaria, alle tipologie d’insediamento, alle migrazioni ecc. Il cognome rimane esposto, in alcune aree più a lungo (Italia Centrale), in altre meno (Italia Settentrionale), a ricorrenti manipolazioni per opera degli attori che se ne avvalgono, ma che più spesso di quanto non si creda, possono anche decidere, pur possedendone uno, di farne a meno, e di non usarlo, preferendogli magari designazioni alternative ritenute più cogenti e pertinenti all’interno di un dato contesto comunitario, come i patronimici, le appartenenze di mestiere, gli appellativi, i soprannomi ecc. La fissazione dell’odierno sistema cognominale non è, allora, il rispecchiamento “fenotipico” del retaggio genetico di famiglie e parentele, né l’esito naturale e spontaneo dell’ovvia esigenza di disambiguazione delle identità sociali, impostosi per di più in un arco di tempo relativamente breve, ma è il frutto invece di un faticoso processo iniziato nel Medioevo e protrattosi per buona parte dell’Età Moderna, nel corso della quale, poi, furono soprattutto le istanze disciplinatrici delle istituzioni, dal censimento delle anime della Controriforma, al governo dei corpi dello stato moderno, ad imprimere finalmente una fissità burocratica all’uso, troppo spesso instabile ed evanescente, delle designazioni familiari. È qui, nella dialettica società-istituzioni, l’altro polo problematico su cui si appuntano le analisi di diversi contributi contenuti nel volume. Le anagrafi sacramentali – gli stati delle anime e i libri di battesimo, matrimonio e sepolture – permettono di riconnettere le oscillazioni semantiche del cognome alle ramificazioni genealogiche e alle modificazioni del contesto economico sociale in cui il lignaggio è storicamente radicato, ma non sono registrazioni che fotografano fedelmente una realtà, e per quanto siano istituzionalmente controllate, risentono in qualche misura della personalità del registrante, il quale può interpretare il suo ruolo in maniera più o meno aderente a quelle che sono le intenzioni dell’istituzione che rappresenta. Questo “soggettivismo”

Introduzione

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amministrativo, di cui nel volume si forniscono numerose riprove, è particolarmente marcato tra i ministri del culto almeno fino al Settecento inoltrato, e se da una parte può far da velo alle consuetudini onomastiche che in qualche modo la Chiesa intende di rappresentare, dall’altra è una buona cartina tornasole della dialettica centro-periferia in ordine al problema delle identificazioni. Il fatto è che il parroco non è un vero funzionario, capace cioè di prendere le distanze dalla società, e di farsi anonimo interprete delle istituzioni; è invece una figura mediatrice situata su un confine: un amministratore periferico della struttura ecclesiale post-tridentina, e nello stesso tempo è l’espressione di una data comunità all’interno dell’istituzione. E questo significa che delle due funzioni riunite in una medesima persona può prevalere al momento delle registrazioni, e a seconda dei casi, ora l’una ora l’altra, mescolando, nello stesso genere di fonti, linguaggi e logiche onomastiche differenti, ora più comunitarie, ora più istituzionali. Questa circostanza, se da una parte deve rendere cauto il ricercatore sul significato da attribuire alle discontinuità onomastiche, che devono perciò essere comprovate da uno spettro ampio di fonti documentarie di diversa natura – ed ecco ancora riemergere l’importanza strategica della microanalisi –, dall’altra è la migliore testimonianza della persistente compresenza di sistemi onomastici concorrenti, e del debole apporto performativo della Chiesa cattolica riguardo alla fissazione dei nomi di famiglia. I provvedimenti anagrafici approvati dal Concilio allo scopo di garantire una più attenta cura delle anime e l’accertamento delle cause impedenti le unioni matrimoniali sono stati fin qui identificati come il principale point tournant antroponimico dell’Età Moderna, per il semplice fatto di aver presupposto come paradigma dell’identità civile e religiosa il sistema “nome di battesimo + nome del casato, o della famiglia”. E non c’è alcun dubbio che nelle istruzioni diramate ai ministri del culto incaricati delle anagrafi sacramentali s’insistesse su questo punto. D’altra parte, una simile periodizzazione non regge del tutto al vaglio della critica. Se le grandezze statistiche ricavabili dagli atti anagrafici sacramentali sembrerebbero confermare l’idea di una generalizzazione del cognome in Italia entro la prima metà del ’600, le ricostruzioni genealogiche, come quella di Nelli per Montecarlo, e le molte attestazioni onomastiche contenute nelle più diverse fonti documentarie, compresi gli atti aventi valore legale, ci mostrano invece un mondo molto meno omogeneo, caratterizzato da una persistente instabilità del cognome e da un’inattesa vitalità delle designazioni alternative. La ricognizione anagrafica

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promossa dal Concilio, pur importantissima per la canonizzazione del paradigma, parrebbe troppo invischiata nelle logiche comunitarie per svolgere quell’azione così incisiva che normalmente gli è attribuita. Per vincere l’inerzia delle designazioni alternative sarebbe stato necessario un personale burocratico più disciplinato, e anche diversamente motivato, perché d’altra parte è chiaro che gli intendimenti della Chiesa posttridentina, relativamente al controllo anagrafico sulla popolazione, furono molto diversi e molto distanti dalla forte volontà razionalizzatrice delle burocrazie statali dell’800. La politica anagrafica dello stato post-rivoluzionario, a differenza di quella tradizionale ecclesiastica, non concederà, infatti, alcun margine di negoziazione in materia d’identificazione degli individui. Tutto il suo rigore poliziesco sarà ben esemplificato dal formulario a stampa, un ritrovato tanto semplice quanto drastico, capace di ridurre l’arbitrio interpretativo, imprimendo così regolarità a tutta l’azione amministrativa. Alle molte ambiguità onomastiche dell’Antico Regime i nuovi formulari della burocrazia napoleonica non riservarono alcuna casella.

I Approcci e strumenti

I cognomi italiani fra società e istituzioni Roberto Bizzocchi Università di Pisa

Introducendo nel 1978 il suo Dizionario dei cognomi italiani, Emidio De Felice sottolineava in modo categorico la natura principalmente linguistica di ogni indagine onomastica1. L’affermazione, in sé difficilmente contestabile, trova riscontro nel fatto che, per esempio, anche nel paese straniero tradizionalmente a noi più vicino sul piano culturale, la Francia, sia stato un eminente linguista a produrre il libro di sintesi cui si fa tuttora riferimento per i cognomi2. E riceve comunque conferma dall’ammirevole qualità e abbondanza del lavoro che i linguisti italiani hanno continuato a fare durante gli ultimi decenni nel campo dell’onomastica, e più particolarmente dell’antroponomastica. Mi limiterò qui a ricordare la realizzazione di due opere monumentali: i due recenti dizionari dei nomi e dei cognomi; la pubblicazione di due agili e preziose sintesi introduttive alla materia, utili anche per le indicazioni bibliografiche che contengono; infine l’esistenza, dal 1995, di una rivista che svolge bene il compito di promuovere nuove ricerche e informare a tappeto su quelle concluse o in corso sia in Italia che all’estero3.

1 E. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, Milano, Mondadori, 1978, p. 9. Lo stesso De Felice pubblicò due anni più tardi un’importante ricerca, contenente molte notevoli, anche se non sempre condivisibili, valutazioni di carattere storico: I cognomi italiani. Rilevamenti quantitativi dagli elenchi telefonici: informazioni socio-economiche e culturali, onomastiche e linguistiche, Bologna, il Mulino e Torino, Seat, 1980. 2 Mi riferisco al libro di A. Dauzat, Traité d’anthroponymie française. Les noms de famille en France, Paris, Payot, 19492, che mostra comunque una buona attenzione ai contesti storici e alla natura storica delle fonti usate dai linguisti. 3 I dizionari: A. Rossebastiano, E. Papa, I nomi di persona in Italia: dizionario storico ed etimologico, 2 voll., Torino, Utet, 2005; E. Caffarelli, C. Marcato, I cognomi d’Italia: dizionario storico ed etimologico, 2 voll., Torino, Utet, 2008. Le sintesi: G. Raimondi, L. Revelli, E. Papa, L’antroponomastica: elementi di metodo, Torino, Libreria Stampatori, 2005; C. Marcato, Nomi di persona, nomi di luogo. Introduzione all’onomastica italiana, Bologna, il Mulino, 2009. La rivista, che ovviamente è aperta ai contributi dei non linguisti, è “Rivista Italiana di Onomastica” (RIOn).

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Con tutto questo, è chiaro – e i colleghi linguisti sono i primi a saperlo – che l’antroponimia presenta anche un aspetto storico di fondamentale rilievo; e ciò non solo per il carattere storico della maggior parte delle fonti che permettono di studiarla, ma anche perché la storia della denominazione è una componente significativa della storia in generale. Qui non posso entrare nel merito della decisiva svolta impressa già verso metà Settecento agli studi antroponomastici italiani da due memorabili dissertazioni di Ludovico Antonio Muratori, rispettivamente sui nomi e soprannomi la prima, sui cognomi la seconda, le quali richiederebbero, anche per alcune loro feconde incongruenze, un approfondito discorso a sé4. Per partire da tempi a noi più vicini, occorre tener presente che il rapporto fra identità e nome è stato ed è uno dei grandi temi dell’antropologia e dell’antropologia storica, fin dalle pagine famose di Lévi-Strauss nel Pensiero selvaggio sul processo di denominazione come parte di un sistema di categorizzazione sociale5. La bibliografia storica sui nomi (termine che, per chiarezza, d’ora in avanti userò solo in senso generico, distinguendo al caso fra prenomi, cognomi, soprannomi) è ormai imponente. Senza presumere nemmeno di toccarne tutte le tendenze principali, accennerò ora rapidamente ad alcuni orientamenti di fondo, che costituiscono il quadro col quale abbiamo confrontato i lavori del gruppo di ricerca di cui presentiamo qui i primi risultati. Gli sviluppi dell’impostazione socio-antropologica e antropologicoculturale del tema sono numerosi e di grande interesse. Oltre che la questione basilare del rapporto fra nome e identità, essi riguardano fra l’altro il nesso con le strutture sociali comunitarie, coi cicli di sviluppo familiare e coi diversi sistemi di trasmissione dei patrimoni6; le implicazioni affettive, religiose, politiche e mediatiche della scelta del prenome7; le vicende delicate, spesso dolorose, dei cambiamenti di nome

4 L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, tomo III, Milano, Tipografia della Società Palatina, 1740, dissertazioni 41 e 42. 5 Per un aggiornamento, vedi T. Russo, Sistemi antroponimici e identità personale: appunti sulla semantica dei nomi propri di persona, “Rivista Italiana di Onomastica”, VIII (2002-1), pp. 29-57. 6 I sistemi di denominazione nelle società europee e i cicli di sviluppo familiare = “L’Uomo”, VII (1983), 1-2; Name and social structure. Examples from Southeast Europe, ed. by P.H. Stahl, Columbia University Press, 1998; Name und Gesellschaft. Soziale und historische Aspekte der Namengebung und Namenentwicklung, hrsg. von J. Eichhoff, W. Seibicke und M. Wolffsohn, Mannheim, Leipzig, Wien, Zürich, Dudenverlag, 2001. 7 Le prénom. Mode et histoire, Recueil de contributions préparé par J. Dupâquier, A.

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imposti e variamente subiti e accettati da gruppi e persone appartenenti alle minoranze, e per contro le novità introdotte nella disciplina dei cognomi in seguito alla promulgazione recente di leggi liberali nei paesi occidentali8; la duttile disponibilità del soprannome nel sopperire alle funzioni di definizione e indicazione perse col processo di inevitabile desemantizzazione di nomi e cognomi9. Non mancano neppure ambiziosi tentativi di sintesi10. Un asse portante della ricerca onomastica è stato ovviamente quello del legame con la storia della famiglia. Il legame concerne anche la casistica della scelta dei prenomi: segnalo, fra tante altre che lo dimostrano, una ricerca dedicata all’isola di Procida, notevole per la sensibilità con cui mette in rilievo l’elemento femminile in un gioco di denominazioni in cui la stessa devozione per i santi più venerati si combina e si accorda con la fedeltà ai tradizionali prenomi familiari11. Quanto agli studi sui cognomi, il comprensibile dominio esercitatovi dall’orizzonte della storia della famiglia è stato così forte ed esclusivo da arrivare a produrre una quasi totale sovrapposizione delle due aree. Come esempio limite, ma rappresentativo, si può indicare quello della storiografia britannica sul tema, la quale, nell’ottica di una solida e attendibile pratica di storia locale, può arrivare a proporre la storia dei cognomi come via maestra per la ricostruzione genealogica e araldica delle origini12. Rispetto a una tale linea di ricerca, e più in generale alla tendenza all’identificazione fra nome e famiglia, che è anche spesso presupposizione

Bideau, M-E. Ducreux, Paris, Editions de l’EHESS, 1984; E. De Felice, Nomi e cultura. Riflessi della cultura italiana dell’Ottocento e del Novecento, Venezia, Marsilio, 1987; S. Pivato, Il nome e la storia. Onomastica e religioni politiche nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 1999. 8 N. Lapierre, Changer de nom (1995), Paris, Gallimard, 2006; Le Nom dans les sociétés occidentales contemporaines, dirigé par A. Fine et F-R. Ouellette, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 2005; V. Feschet, La transmission du nom de famille en Europe occidentale (fin XXe-début XXIe siècles), in “L’Homme”, CLXIX (2004), pp. 61-88. 9 I. Putzu, Il soprannome. Per uno studio multidisciplinare della denominazione, Cagliari, CUEC, 2000. 10 M. Mitterauer, Antenati e santi. L’imposizione del nome nella storia europea (1993), trad. it. Torino, Einaudi, 2001; S. Wilson, The means of naming. A social and cultural history of personal naming in western Europe, London and New York, Routledge, 1998. 11 G. Palumbo, L’esile traccia del nome. Storie di donne, storie di famiglie in un’isola del Napoletano fra età moderna e contemporanea, Napoli, Liguori, 2001. 12 D. Hey, Family names and family history (2000), London, Hambledon Continuum, 2007.

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della stabilità del nome (specialmente del cognome), va accolta senza dubbio con favore l’innovazione, vivacemente consapevole di esserlo, rappresentata dal lavoro di un agguerrito gruppo di studiosi, soprattutto franco-spagnoli, ora concretizzata in una cospicua e ricca raccolta di saggi riuniti e commentati da Gregorio Salinero, Isabel Testón Núñez e Bernard Vincent13. L’esperienza di ricerca sull’emigrazione dall’Europa al Nuovo Mondo, sulla deportazione dei moriscos, sulle schiavitù mediterranee, e su altre forme ancora di mobilità di popolazioni nel corso dell’età moderna, che è quella cruciale per la formazione dei cognomi, hanno indotto questi studiosi a mettere in discussione la validità di un modello lineare di origine e fissazione del nome di famiglia e a rivendicare con forza l’irriducibilità di un’identità personale a una coppia onomastica stabile composta di prenome e cognome. L’orizzonte prevalentemente atlantico o almeno mediterraneo del gruppo in questione è stato evidentemente decisivo nell’ispirare ai colleghi franco-spagnoli un’attenzione particolare al tema dell’instabilità e del cambiamento; ma è pur vero che l’elemento della mobilità e delle migrazioni è importante anche nelle storie della maggior parte delle comunità urbane e anche rurali d’Italia e d’Europa. A noi, come gruppo coalizzatosi in prima battuta nel corso del 2008 fra vari Dipartimenti dell’Università di Pisa, è parso subito chiaro che sarebbe stato utile confrontare il nostro lavoro con quello dei colleghi di cui ho appena scritto. Per questa ragione, e per la prontezza con cui essi hanno raccolto il nostro invito (così come noi abbiamo fatto discutendo con loro in occasione del seminario, tenuto nello stesso 2008 a Madrid, che fu all’origine del loro volume), la presente silloge di studi accoglie anche i loro preziosi contributi, che non si limitano ad offrire uno sfondo più ampio alle nostre ricerche italiane, ma suggeriscono con queste ultime un dialogo serrato, che andrà di certo approfondito ma appare già ben impostato. Gregorio Salinero ha sintetizzato per noi con chiarezza ed efficacia le linee direttive del loro progetto. João de Pina-Cabral e Enric Porqueres ci hanno aiutato a mantenerci in contatto con la complessità delle implicazioni antropologiche della nostra problematica storiografica. Bernard Vincent ha mostrato un istruttivo caso concreto di resistenze, modificazioni e recuperi di prenomi e cognomi arabi di moriscos incalzati dalla pressione onomastica cristiana spagnola. Rocío Sánchez Rubio e

Un juego de engaños. Movilidad, nombres y apellidos en los siglos XV a XVIII, Estudios reunidos y presentados por G. Salinero e I. Testón Núñez, Madrid, Casa de Velázquez, 2010 (introduzione e conclusioni a pp. 9-26, 313-319).

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Isabel Testón Núñez si sono impegnate in un’ampia ed esaustiva sintesi di studi sull’antroponimia spagnola d’età moderna che costituisce e costituirà un utilissimo termine di paragone per la ricerca italiana. Rispetto alla varietà e pluralità di tali stimoli, il nostro progetto italiano presenta un suo ben definito centro d’interesse, che credo valga la pena mantenere attraverso le maturazioni e i raffinamenti che – spero di poter affermare – lo hanno migliorato in corso d’opera. Provo a definire tale centro col seguente interrogativo: come e quando si afferma e che cosa significa il cognome per una persona e per una famiglia, all’interno di una (o appunto, in caso di mobilità, di più di una) comunità, e inoltre in rapporto alle interazioni con le ramificazioni delle burocrazie ecclesiastiche e civili. Anche nella sola prospettiva della storia dello Stato moderno – una prospettiva tutt’altro che trascurabile, e del resto tutt’altro che trascurata nella pratica storiografica italiana – il tema appare così importante da domandarsi perché finora sia stato relativamente poco studiato. Oggi gli Stati dispongono di mezzi tecnici raffinati per riconoscere e controllare gli individui: una disponibilità di cui si può anche cercare di rintracciare i più rudimentali precedenti indietro nel tempo fino addirittura agli ultimi secoli del Medioevo14. Ma per molto tempo anche un mezzo aleatorio quale quello onomastico è stato chiamato a svolgere un ruolo identificativo, e precisamente poliziesco, centrale. Basti sapere che ancora Jeremy Bentham pensava di impostare la ricognizione individuale necessaria alla prevenzione dei crimini sulla base di una sorta di minuziosamente personalizzato panopticon onomastico, così che – come scriveva – “in a whole nation, every individual should have a proper name, which should belong to him alone”15. Naturalmente non c’è solo questo. La storia dei cognomi è interessante prima di tutto a livello locale come una traccia e un aspetto delle configurazioni dei rapporti fra le persone e le famiglie. Al di là del

V. Groebner, Storia dell’identità personale e della sua certificazione. Scheda segnaletica, documento di identità e controllo nell’Europa moderna (2004), Bellinzona, Casagrande, 2008. Due esempi notevoli di trattazione delle importanti implicazioni politicheideologiche del tema in epoche più recenti: V. Denis, Une histoire de l’identité. France, 1715-1815, Seyssel, Champ Vallon, 2008; P. Piazza, Histoire de la carte nationale d’identité, Paris, Odile Jacob, 2004. 15 J. Bentham, Works, published under the superintendence of his executor John Bowring, vol. I, Edinburgh, William Tait, 1938, p. 557. Un’approfondita analisi della vicenda francese in A. Lefebvre-Teillard, Le nom. Droit et histoire, Presses Universitaires de France, 1990. 14

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dato più ovvio – e per altro forse da non enfatizzare – della difficoltà di disambiguazione dopo il fenomeno medievale di riduzione dello stock dei prenomi, l’uso di un cognome, o soprannome, o secondo nome poteva anche assumere la funzione di segmentare e distinguere linee di discendenza delimitate all’interno di una parentela più estesa. Non occorre poi insistere sul valore culturale e simbolico dell’autoriconoscimento sotto uno stesso nome da parte dei membri di un casato nobiliare e dei contitolari di una giurisdizione territoriale o di un titolo feudale. In Italia, o almeno in gran parte d’Italia, l’azione politica e amministrativa dei Comuni ha certo avuto un’influenza importante nella dinamica di formazione dei cognomi; ma, come già avvertiva il primo grande studio in materia, dedicato alla Bologna del Duecento, quella dinamica non era alimentata solo dall’intraprendenza amministrativa della burocrazia pubblica e dalla funzione documentaria dei notai16. Per quanto riguarda la storia italiana del basso Medio Evo, fino, appunto, grosso modo all’età comunale e alla vigilia della costituzione dei premoderni Stati territoriali, o regionali che dir si voglia, le nostre conoscenze onomastiche sono in realtà maggiori – benché tutt’altro che esaurienti – di quel che non siano per i secoli fra Quattro e Settecento. Lo dobbiamo essenzialmente al fatto che l’Italia è rientrata ampiamente come oggetto d’indagine di una monumentale e più che meritoria iniziativa condotta a livello europeo a partire dalla fine degli anni Ottanta sotto la guida della storica francese Monique Bourin: la Genèse médiévale de l’anthroponymie moderne. Non mi diffondo a descriverla, per due motivi. Il primo è che un altro dei nostri colleghi stranieri non specialisti di storia italiana aggiuntisi al nostro gruppo, Pascal Chareille, il quale è anche uno dei protagonisti di quell’iniziativa, ne parla in apertura del saggio che ci ha offerto per questo volume, dove mostra poi un’esemplificazione interessante delle potenzialità della statistica nello studio dell’antroponimia: fra l’altro – vi ho accennato appena qui sopra – proponendo la revisione dell’idea tradizionale sulla diminuzione del numero dei prenomi come principale causa scatenante della diffusione dei cognomi nell’Europa medievale (il suo riferimento documentario è qui al cartulario dell’abbazia di Cluny fra 802 e 1026). Il secondo è che sempre in questo volume possiamo pubblicare un saggio di Simone Collavini che comprende una sintesi limpida e un acuto ripensamento complessivo dei

A. Gaudenzi, Sulla storia del cognome a Bologna nel secolo XIII, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano”, XIX (1898), pp. 1-163.

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notevolissimi risultati raggiunti nei quattro volumi italiani prodotti dal gruppo coordinato da Monique Bourin. Ci ritornerò fra poco. Molto meno esplorata è rimasta finora l’epoca moderna, la quale tuttavia, pur sulla base della gestazione e dell’elaborazione medievali del patrimonio e degli usi onomastici, presenta non minori motivi d’interesse, a cominciare dalla decisiva questione del coinvolgimento delle masse popolari nel processo di formazione e soprattutto fissazione – che non è la stessa cosa – del cognome. Prima di entrare, al proposito, nel merito delle problematiche definite, degli aspetti del tema affrontati, e dei risultati ottenuti e da ottenere, è opportuno spiegare le coordinate pratico-economiche e procedurali entro le quali è stato possibile pensare e realizzare il nostro lavoro: coordinate che ne hanno fortemente influenzato – occorre davvero insistervi nel presentarlo? – le linee di percorso e gli esiti. L’occasione per concretizzare un progetto che avevamo già in mente e già in parte discusso, fra storici e cultori di altre discipline, ci si è presentata grazie a un finanziamento biennale per la ricerca erogato nel 2008 dall’Università di Pisa nell’ambito di un’iniziativa promossa dall’allora rettore Marco Pasquali con l’obiettivo particolare di sostenere la ricerca dei giovani impegnati in rapporti di lavoro non strutturati con l’Università, e di incoraggiare la collaborazione fra Dipartimenti diversi e anche aree scientifiche non contigue. L’occasione non era affatto pretestuosa, perché il progetto che stavamo maturando corrispondeva già naturalmente alle due caratteristiche salienti previste dal bando. In primo luogo, esso non era neppure concepibile senza il contributo d’intelligenza, entusiasmo e disponibilità di colleghi giovani, sia quelli componenti l’originario manipolo pisano, sia gli altri che lo hanno poi arricchito, ai quali tutti va riconosciuto il merito principale del successo nel completamento dell’impresa. Secondariamente, il progetto coinvolgeva già, oltre ai colleghi storici Andrea Addobbati, che vi ha svolto un ruolo intellettuale, prima ancora che organizzativo, a dir poco trainante, e Michele Luzzati, che ha messo a disposizione la sua consolidata esperienza poi riversata qui nel volume in un saggio di sintesi sui cognomi ebraici, anche, ovviamente, colleghi linguisti, quali Maria Giovanna Arcamone, decana degli studi onomastici italiani, e Franco Fanciullo, insostituibile per la sua competenza dialettologica, nonché lo storico del diritto Enrico Spagnesi, accreditato specialista – fra l’altro – proprio del tema della disciplina giuridica del nome. Al pari di Luzzati, per questo volume Spagnesi ha utilmente ripreso e sintetizzato per noi

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i suoi precedenti studi in materia; mentre la mediazione dei colleghi Arcamone e Fanciullo ci ha permesso di ottenere sia una collaborazione simile sul piano linguistico da parte di Carla Marcato, sia un saggio nuovo di ricerca da parte di uno dei giovani del gruppo, Simone Pisano, il quale non si è limitato a ricostruire con sicurezza le varie componenti del patrimonio lessicale dei cognomi della Sardegna, ma è stato anche attento a segnalare le peculiarità socioantroponimiche dell’isola, specie nell’uso dei soprannomi e nella perdurante competizione fra linee di trasmissione patronimica e matronimica. Due parole in più richiede la spiegazione della collaborazione fornitaci dall’unico scienziato facente parte del nostro gruppo – parte integrante e irrinunciabile, fin dall’inizio – il fisico, esperto di statistica e da tempo anche storico a pieno titolo Paolo Rossi, il quale ci ha introdotto in una dimensione per noi nuova. Da qualche decennio i genetisti hanno individuato nel cognome patronimico un marcatore del grado di consanguineità in molti gruppi umani, in quanto esso si trasmette da una generazione all’altra come il cromosoma y. Più in particolare, con la consanguineità è stato messo in rapporto matematico, attraverso calcoli tecnicamente sofisticati, il dato dell’isonimia matrimoniale, cioè della percentuale dei matrimoni fra coniugi portanti lo stesso cognome. Il vantaggio che la ricerca genetica può trarre dall’utilizzo di banche dati facilmente disponibili (almeno per le epoche più recenti e per quella attuale) rispetto ai tempi e agli oneri di campagne di prelievi in laboratorio appare evidente17. Con Rossi abbiamo discusso a lungo e approfonditamente due questioni. Da una parte, c’è da affrontare la possibile incidenza di fattori in senso lato storici (omonimia, adulterio, pratiche di registrazione e

Il libro di riferimento in materia resta quello di G.W. Lasker, Surnames and genetics structure, Cambridge UP, 1985. Una ricca bibliografia aggiornata al 2003, con cospicua presenza dell’area italiana, in S. Colantonio, G.W. Lasker, B.A. Kaplan, V. Fuster, Use of surname models in human population biology: a review of recent developments, in “Human Biology”, LXXV (2003), 6, pp. 785-807. Nel sito di Paolo Rossi presso la Facoltà di Scienze (di cui è ora Preside) dell’Università di Pisa, sono disponibili, fra l’altro, alcuni saggi e dispense pensati appositamente per rendere abbordabili agli storici i risultati di questo ramo della ricerca genetistica. Aggiungo qui che è di recentissima pubblicazione un libro che fa appello alle tecniche della genetica per corroborare una tendenza specificamente britannica, cui ho già fatto cenno, a usare i cognomi come disvelatori di ceppi e zone d’origine: G. Redmonds, T. King, and D. Hey, Surnames, DNA, and Family History, Oxford UP, 2011.

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trascrizione, e quant’altro) sulla risultanza astratta del rapporto cognome/ gene: un problema che del resto gli stessi genetisti si sono già posti per conto loro, specie nei casi in cui l’alleanza con qualche collega storico o antropologo ha risparmiato al loro buon senso il rischio di essere lasciato a combattere da solo contro l’irriducibilità del mondo alla disciplina della ragione scientifica18. Dall’altra parte, ci siamo soprattutto confrontati sulle potenzialità dell’utilizzo di tecniche statistiche raffinate per valorizzare al massimo le nostre serie di dati storico-onomastici, che di solito ci accontentiamo di raccogliere in tabelle costruite in modo alquanto rudimentale, mentre un loro pieno sfruttamento aprirebbe la via a progressi significativi nel campo della ricerca socio-demografica: per lo studio delle provenienze, dei movimenti migratori, delle differenziazioni interne alle discendenze familiari. Non siamo certo noi ad aver scoperto l’esistenza di questa possibile e auspicabile collaborazione interdisciplinare19. E in effetti una parte consistente della già immensa letteratura genetico-isonimica pare meno aggirarsi intorno a problematiche inerenti alle conseguenze biologicosanitarie della consanguineità o comunque all’attendibilità del dato isonimico in genetica, che rispondere a interrogativi schiettamente sociologici: cosa ci dicono, per esempio, gli elenchi telefonici in merito all’isolamento delle comunità in rapporto alla conformazione territoriale e al ruolo delle vie di comunicazione? O in merito al rapporto fra offerta di manodopera e immigrazione, insediamento e turismo, e così via? C’è la possibilità di un lavoro enorme da svolgere, il cui interesse sarà proporzionale all’inventiva e alla finezza con cui, anche cercando di rimontare il più possibile indietro nel tempo, sapremo porre alle nostre documentazioni le domande storiche meno prevedibili e più intriganti. In questo volume Paolo Rossi è presente con due contributi. In uno interviene con un suo istruttivo calcolo statistico in un dibattito, quello sul nepotismo accademico, troppo spesso sciaguratamente condotto in base a pregiudizi emotivi e ostilità ideologiche. Nell’altro ci ha aiutato ad impostare una ricerca i cui risultati ci proponiamo di pubblicare a parte in un prossimo futuro. Si tratta, per l’appunto, Cito l’esempio più esplicito a mia conoscenza: K.M. Weiss, R. Chakraborty, A.V. Buchanan, R.J. Schwartz, Mutations in names: implications for assessing identity by descent from historical records, in “Human Biology”, LV (1983), 2, pp. 313-322. 19 Ad esempio: Le patronyme. Histoire, anthropologie, société, ouvrage dirigé par G. Brunet, P. Darlu, G. Zei, Paris, Editions CNRS, 2001; P. Darlu, Patronymes et démographie historique, in “Annales de Démographie Historique” (2004), 2, pp. 53-65. 18

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dell’utilizzazione quantitativa, previa informatizzazione, di una raccolta di dati demografico-onomastici che non esito a definire monumentale: oltre 200.000 attestazioni ‘cognominali’ (in senso lato) per la comunità di Montecarlo in Val di Nievole dalla prima metà del Cinquecento al 1900. L’autore, lungo quasi un quarantennio, di questa spettacolare impresa, il montecarlese, funzionario dell’Archivio di Stato di Lucca, Sergio Nelli pubblica al proposito nel volume un saggio su cui tornerò per l’importanza fondamentale di alcune altre questioni che pone e chiarisce. Confidiamo comunque, come spiegato nell’altro intervento, quello a firma Nelli-RossiBizzocchi, che il data-base di Montecarlo, immenso e precoce rispetto a quelli finora usati dai genetisti-isonomi per le epoche prestatistiche, ci consentirà – a parte un’ulteriore, rilevante verifica dell’attendibilità del metodo isonimico – delle acquisizioni molto notevoli di conoscenza in merito al rapporto fra denominazione, famiglia e popolazione nella vita sociale di una comunità lungo e oltre l’intera età moderna. Altri temi e altre questioni si sono affacciati alla nostra attenzione nel corso del lavoro che abbiamo svolto in comune durante il biennio di finanziamento della ricerca; e ciò soprattutto grazie all’interesse che la nostra iniziativa ha sollevato da parte di colleghi i quali, pur non partecipandovi già dalle prime battute, vi hanno però poi contribuito con una generosità d’impegno e un’incisività di risultati per cui meritano la nostra più viva gratitudine: sia quelli che hanno discusso con noi il percorso delle nostre ricerche, aiutandoci a migliorarle, Franco Angiolini, Marina Caffiero, Carlo Alberto Corsini, Biagio Salvemini, Angelo Torre; sia quelli che ci hanno permesso di rendere meno lacunoso e uniforme il pannello delle nostre proposte, e mi riferisco qui in particolare a Elisa Novi Chavarria, la quale per il nostro volume ha ripensato e rinnovato in chiave di rapporti fra amministrazione statale, nomadismo e onomastica il suo precedente e ben noto libro sul popolo rom nel Regno di Napoli durante l’età moderna20. Nell’insieme, la nostra impressione è quella di potere ora proporre una silloge di risultati certo parziali ma notevoli e promettenti, un volume non privo di manchevolezze e squilibri, con molta carne al fuoco e molte zone d’ombra, e tuttavia vivo e valido precisamente perché non lascia le cose come stavano. Il risultato sicuramente più positivo e più importante è che il problema di fondo dal quale eravamo partiti è stato non tanto risolto,

E. Novi Chavarria, Sulle tracce degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli. Secoli XV-XVIII, Napoli, Guida, 2007.

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quanto radicalmente riformulato, in termini che ora ci appaiono assai più penetranti e comprensivi nei confronti del tema così delicato e umano – quello che ho enunciato qui sopra – dell’identificazione e della denominazione degli uomini e delle donne italiani lungo i secoli centrali della nostra storia. La presenza di un eccesso di semplificazione nella domanda “quando nascono i cognomi?” l’avevamo già assunta come una premessa della nostra indagine. È una domanda, s’intende, sensata, e che del resto suole tallonare da presso l’altra che esprime la curiosità più spontanea ed elementare: “cosa significano questo e quest’altro cognome?”. Le due domande alimentano fra l’altro incessantemente da parte di studiosi amatori un’operosità che riversa in rete una massa imponente di informazioni nell’insieme nient’affatto trascurabili, perché non sono pochi i casi in cui la passione familiare e locale si è tradotta in un lavoro consapevole sulle fonti. Si tratta comunque di domande che la ricerca antroponomastica si poneva ovviamente da sempre come fondamentali; ciò però con esiti assai diversi in ordine alle rispettive ricchezze, precisioni e attendibilità delle risposte. Le tipologie basilari di formazione dei cognomi sono state definite con chiarezza dai linguisti. Capita di trovarle esposte secondo criteri di classificazione e distinzione talora un poco divergenti in alcune sfumature; comunque l’articolazione sostanziale comprende i derivati da patronimici o matronimici (Martini, De Rosa), da etnici o toponimici (Bolognesi, Da Ponte), da soprannomi vari (Rossi, Fumagalli), da mestieri o uffici (Ferrari, Iacono)21. Spiegate le tipologie, a parte le sfumature diverse, un approfondimento d’indagine di grande rilievo storico sarebbe poi quello di capire le ragioni del prevalere – nei tempi, negli spazi, nei modi – dell’una o dell’altra tipologia di formazione. Il problema, già ben presente a De Felice, è stato proposto in modo pertinente ma inevitabilmente un po’ rapido nella sintesi di Michael Mitterauer: i cognomi patronimici sembrano mostrare un forte senso di appartenenza alla stirpe agnatica, quelli da soprannomi rimanderebbero piuttosto alle solidarietà scherzose proprie dello stile di vita di gruppi giovanili maschili di contadini o artigiani, e così via22. Proprio qui nel nostro volume Rita Foti svolge un’analisi puntuale e convincente delle implicazioni storiche dell’esistenza e delle modificazioni

Un’articolazione particolarmente sottile e raffinata è quella proposta da De Felice, I cognomi italiani, cit., pp. 229-232. Per una discussione delle varie proposte, Caffarelli, Marcato, I cognomi d’Italia, cit., I, pp. XIII-XV. 22 Mitterauer, Antenati e santi, cit., pp. 380-387. 21

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dei cognomi da toponimi centro-settentrionali nella Corleone bassomedievale. Ogni generalizzazione sarebbe però evidentemente del tutto prematura su questo tema non eludibile, ma affrontabile solo sulla base di un gran numero di ricerche documentarie paragonabili per acribia e penetrazione a quella della Foti stessa. Quanto alla domanda sul periodo di origine – manteniamo ancora per poco questa terminologia ambigua e insufficiente – dei cognomi, le risposte date finora dagli specialisti erano sorprendentemente meno univoche di quanto ci si potrebbe aspettare. Basti per tutti ricordare – spero senza apparire pedantesco – che proprio il patriarca di questi studi in Italia nutriva sulla questione un’opinione, da lui espressa più volte, decisamente sconcertante, e cioè che la formazione, generalizzata, dei cognomi italiani si sia sostanzialmente realizzata “tra l’11° e l’inizio del 14° secolo”23. La tesi più diffusa, e soprattutto più prudentemente esposta, abbassa invece ovviamente la datazione di qualche secolo, facendo riferimento alle conseguenze dell’applicazione dei decreti del Concilio di Trento, che obbligarono i parroci a tenere regolari registri di battesimo e matrimonio, obbligo cui s’aggiunse un mezzo secolo più tardi, nel 1614, quello di registrare i decessi e gli stati delle anime. Di registri pre e posttridentini si trova di fatto solitamente trattare nei contributi dei demografi; e invero anche in un recente e autorevole bilancio linguistico che presenta una messa a punto equilibrata e guardinga24. Collegare, all’ingrosso, il processo di cognomizzazione di massa degli Italiani al periodo successivo al Concilio appare tanto più plausibile in quanto si tratta anche del periodo di potenziamento delle burocrazie degli Stati, che costituirono l’altro grande fattore istituzionale ed esterno di promozione del processo. Tuttavia, già su questo problema basilare della definizione

De Felice, I cognomi italiani, cit., p. 200. L’affermazione risulta indirettamente un po’ mitigata e relativizzata da considerazioni collegate proposte in seguito (p. 215), ma ricompare poi in altra sede, ribadita e argomentata: E. De Felice, Le origini, il processo di formazione e la tipologia dei cognomi italiani, in Erlanger FamiliennamenColloquium, hrsg. von R. Schützeichel und A. Wendehorst, Neustadt an der Aisch, Degener, 1985, pp. 93-99 (94). 24 M. Livi Bacci et L. Del Panta, Identification des individus à partir du XVIIe siècle en Italie, in Noms et prénoms. Aperçu historique sur la dénomination des personnes en divers pays, a cura di L. Henry, Dolhain, Ordina Editions, 1974, pp. 83-98; D. Kremer, Autour de la formation historique des noms de famille italiens, in Da Torino a Pisa. Atti delle giornate di studio di Onomastica, a cura di A. Rossebastiano, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 3-29 (6). 23

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delle date o dei periodi, le ricerche a campione svolte dal nostro gruppo hanno riservato qualche sorpresa e nel complesso svuotato l’interesse, se non smentito l’attendibilità, di una risposta così generica e uniforme. Benché il punto abbia suscitato fra noi dibattiti accesi e nette contrapposizioni, credo sia innegabile che l’Italia settentrionale, meglio: alcune zone di essa, abbiano mostrato una forte precocità – per ora accontentiamoci di questo termine – nella formazione dei cognomi. Era già ben nota al proposito la specifica e spiccata primazia di Venezia, dove le più antiche tracce del fenomeno risalgono ad assai prima del Mille: un dato il cui estremo rilievo, proprio in rapporto alle peculiarità della storia politica e sociale della città, non era sfuggito a Muratori ed è stato più recentemente approfondito in un saggio classico del linguista Gianfranco Folena25. Nell’ambito dell’Italia settentrionale l’insieme dei lavori del nostro gruppo mette ora in evidenza più di altre la posizione del Piemonte. Il saggio di Guido Alfani documenta che nei registri parrocchiali tenuti a Ivrea, Finale Ligure e Mirandola negli ultimi decenni del Quattrocento la presenza del cognome si attesta fra l’80 e addirittura il 100%, anche nelle zone rurali; qui gli effetti del Concilio di Trento sembrano limitarsi a perfezionare un sistema già stabilito. Ancora più impressionanti sono i dati raccolti da Alessandro Barbero in diverse località del Piemonte, perché nel suo caso le percentuali molto alte, fra 46 e 89, di cognomi trascritti nelle liste di giuramenti e negli elenchi di affittuari che ha collazionato in numero consistente ed esaminato con cura riguardano le campagne piemontesi addirittura nel corso del Duecento; un fatto che ribadisce e anticipa ulteriormente i risultati di un sondaggio che era già stato compiuto in precedenza su di una comunità particolare26. Una tale ‘precocità’ piemontese viene confermata per una via indiretta e notevole dall’attenta analisi che Sara Rivoira ha dedicato ai registri degli affittuari delle terre dei signori di Luserna nella prima metà del Trecento. La zona corrisponde all’area di diffusione ereticale di quelli che per l’epoca possono ancora essere definiti come “valdismi” al plurale, prima dell’identificazione forte tra fede valdese e Valli valdesi realizzata con l’accordo sulla libertà religiosa stipulato a Cavour nel 1561. È proprio perché a metà Trecento il processo di formazione dei cognomi

G. Folena, Gli antichi nomi di persona e la storia civile di Venezia (1971), in Id., Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova, Editoriale Programma, 1990, pp. 175-209. 26 A. Rossebastiano, Nome, cognome e soprannome nel Piemonte rurale, in “Studi Piemontesi”, XXXIII (2004), pp. 29-47. 25

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era già assai avanzato, che possiamo escludere che l’elemento religioso, più nettamente definito solo due secoli dopo, vi abbia svolto un ruolo significativo accanto alle consuete ragioni patronimiche, toponimiche e simili. Un valdese poteva (specie fino alla fine del ghetto nel 1848) e può sentire di avere un cognome che lo indica come tale; ma tecnicamente si tratta non di un relativamente tardo cognome valdese quanto di un precedente cognome tipico delle Valli valdesi. Di fronte a tali emergenze nel Nord d’Italia sta l’evidenza palmare di una ben diversa tempistica nel resto del paese: nel Mezzogiorno, forse con l’eccezione di Napoli, ma specialmente nell’Italia centrale e in Toscana. Questo fatto, segnalato per casi singoli, Roma compresa, e generalmente rilevato da tempo con sicurezza durante i lavori del gruppo medievistico coordinato da Monique Bourin27, ha ricevuto da parte nostra un’ampia conferma. Il lettore ne troverà le prove in molti dei saggi del volume; ma quello che va particolarmente citato al riguardo è il contributo che Iva Puccinelli ha elaborato sulla base di una fonte coerente e completa (e parzialmente consultabile in rete), i libri dei battesimi di Pisa a partire dal 1457. Il dato sulla presenza dei cognomi nel primo secolo di esistenza dei libri (1457-1557), appena superiore al 23%, non può non mettere in risalto un netto divario rispetto a quelli dei battesimi circa contemporanei studiati da Alfani. Continuando ancora per un momento ad astrarre i dati numerici dal loro contesto storico e documentario, credo si debba riconoscere che nonostante le nostre e le precedenti ricerche restino lontanissime dall’aver raccolto informazioni sufficienti ad autorizzare generalizzazioni, le indicazioni tanto divergenti sul Nord e il Centro o Centro-Sud d’Italia segnalino comunque l’esistenza di due modelli di denominazione distinti, di cui occorre indagare le logiche fuori da ogni pregiudizio sulla maggiore funzionalità o modernità di quello che suona più prettamente cognominale per il nostro orecchio. Se nei villaggi del Piemonte duecentesco le persone si distinguevano grazie a coppie onomastiche quali Giovanni Valino, oppure Otto Cavazza (cito da Barbero), sembra difficile immaginare che in quelli della Toscana di tre secoli più tardi fosse sufficiente F. Menant, L’Italie centro-septentrionale, e J-M. Martin, L’Italie méridionale, in L’anthroponymie document de l’histoire sociale des mondes méditerranéens médiévaux, a cura di M. Bourin, J-M. Martin et F. Menant, Roma, Ecole Française, 1996, pp. 19-28 e 29-39. Per Roma c’è il dato del 20% di cognomi nel censimento appena precedente il Sacco del 1527: G. D’Acunti, Un “censimento” romano del primo Cinquecento, in “Rivista Italiana di Onomastica” (1996), 2, pp. 15-28.

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conoscersi per prenome, specie se questo non era Otto ma Giovanni. Di fatto, uno dei temi più suggestivi della storia onomastica e sociale italiana è quello dell’identificazione, e anche della memoria genealogica profonda, attraverso patronimici o altri indicatori (un esempio solo, qui dalla Puccinelli: Alessandra di Domenico caciaiolo detto il Cecino), in condizione di assenza o di instabilità del cognome. Al riguardo disponiamo da tempo di analisi precise del caso illustre della nobiltà di Amalfi e di quello, non meno istruttivo, del ceto mercantile di Pisa28. Ora le penetranti riflessioni di Simone Collavini in questo volume offrono una seria proposta d’impostazione generale della questione, collegando la prevalenza del modello cognominale o dell’altro a una vicenda cruciale della storia medievale italiana, cioè lo scarto cronologico nell’assestamento delle signorie territoriali al Nord e al Centro. Nel corso del secolo XI, quando cominciò a svilupparsi con forza il fenomeno della doppia denominazione, le aristocrazie rurali settentrionali detenevano già saldamente il controllo delle rispettive località, da cui poterono così assumere il nome/cognome, estendendolo poi come pratica diffusa verso l’insieme delle popolazioni. Al contrario, poiché l’affermazione dei poteri signorili nell’Italia centrale e in Toscana era più lenta, qui non si realizzò l’appuntamento fra terra e nome, e il modello non cognominale perdurò assai più a lungo. Va ripetuto, come suggerisce anche Barbero in riferimento ai sistemi tradizionali di gestione della terra in Piemonte, che confrontando i due modelli onomastici non ha alcun senso parlare di modernità o arcaismo: entrambi svolgevano la loro funzione. Aggiungo che si può scommettere che Giovanni Valino non fosse affatto più facilmente riconoscibile di Alessandra di Domenico caciaiolo detto il Cecino. Ho definito quella di Collavini una proposta; credo che sia uno dei risultati rilevanti che il lavoro del nostro gruppo può rivendicare, avanzandolo come un’ipotesi forte sulla quale concentrare ulteriori e massicci sforzi di ricerca, in particolare in merito all’incidenza statistica dei cognomi toponimici nel Nord e nel Centro Italia a partire dal Medioevo. Un’indicazione comunque fondamentale resta quella delle conseguenze del rapporto contingente fra contesto sociale e denominazione. E a tale proposito, se la presa d’atto del carattere storico-sociale del nome può

28 M. Del Treppo, La nobiltà dalla memoria lunga, in Id.-A. Leone, Amalfi medioevale, Napoli, Giannini, 1977, pp. 89-119; M. Luzzati, Memoria genealogica in assenza di cognome nella Pisa del Quattrocento, in Le modèle familial européen. Normes, déviances, contrôle du pouvoir, Roma, Ecole Française, 1986, pp. 87-100.

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apparire un’ovvietà, non altrettanto può dirsi di una considerazione ulteriore, ispirata dall’inizio di un’indagine adeguata al riguardo, quale quella impostata da Collavini: l’origine dei cognomi, nei modi diversi dettati dalle rispettive condizioni dei luoghi, non è stata, nei tempi, un fenomeno puntuale, una nascita più o meno precoce ma sempre avvenuta una volta per tutte, bensì un processo di formazione prolungato e complicato, di cui sarebbe sbagliato postulare la linearità e l’irreversibilità. Se al momento di stendere il progetto del nostro gruppo già pensavamo che la domanda “quando nascono i cognomi?” fosse insufficiente, i risultati pur parziali delle nostre ricerche ci aiutano ora a capire meglio in che senso lo era. Il calcolo delle percentuali di cognomi definibili come tali in questa o quella situazione, in questo o quell’anno, è un’operazione imprescindibile; essa però assume spessore attraverso un’analisi socialmente contestualizzata, e dunque inevitabilmente concentrata su comunità campione, della stabilità dei cognomi nel susseguirsi delle generazioni, e della loro interazione con altre forme concorrenti di identificazione. A tale proposito la microstoria di Castione della Presolana nella montagna bergamasca, ricostruita qui da Alma Poloni lungo tre secoli dal Due al Cinquecento, comporta un passo avanti decisivo. La sua indagine mostra nel modo più convincente che la prima fase di apparizione dei cognomi, corrispondente, fra fine Due e inizio Trecento, alla formazione di proprietà contadine su quelle che erano le terre del vescovo, non chiuse per sempre la partita. Lo studio delle varie tipologie documentarie disponibili toglie ogni dubbio sul fatto che gli abitanti continuarono a ricorrere anche ad altri elementi onomastici oltre che ai cognomi. Molti di questi del resto sparirono con la crisi demografica di fine Trecento; e la spettacolare ripresa dei cognomi, attestata negli estimi fra Quattro e Cinquecento come effetto di un radicale ribaltamento di equilibri economico-demografici in favore delle contrade alpestri rispetto al capoluogo, non impedì che nel 1544, in misura maggiore che in precedenza, capifamiglia che ‘avevano un cognome’ venissero invece identificati nell’estimo in base alla residenza che distingueva il loro focolare domestico dall’insieme di una discendenza genealogica più vasta29.

Segnalo qui che nell’ambito del nostro gruppo ha preso avvio, ad opera di Andrea Addobbati, una ricerca sui rapporti fra struttura sociale e forme di denominazione nella parrocchia di Urgnano, grosso borgo agricolo alle porte di Bergamo. La ricerca, basata sul confronto fra libri parrocchiali e atti notarili, riprenderà in altro contesto

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Suggestioni simili provengono dall’altra microstoria – cui ho già fatto cenno – tracciata da Sergio Nelli per Montecarlo di Lucca. Anche in questo caso la prima ondata di denominazioni chiaramente cognominali rispetto alle precedenti abitudini patronimiche, realizzatasi lungo tutto il corso del Cinquecento, si collegò a un fenomeno rilevante nella vita della comunità, la bonifica della foresta con la conseguente moltiplicazione di insediamenti agricoli fuori le mura, nei quali appunto cominciò a profilarsi l’uso di cognomi trasmessi da una generazione all’altra. Elemento spiccato di forza nell’analisi di Nelli è poi la ricostruzione di tutte le genealogie dei Montecarlesi fra il basso Medioevo e il secolo XIX: una prestazione che gli permette di evidenziare con straordinaria concretezza il grado di corrispondenza – alto, ma tutt’altro che totale – fra famiglia e cognome, e la pluralità delle dinamiche di creazione e variazione onomastica in rapporto con le segmentazioni patrimoniali e residenziali dei rami familiari. Proprio l’orizzonte dominante di continuità e durata che marca, anche moralmente, una ricerca di una vita quale è questa di Sergio dà, per contrasto, risalto tanto maggiore alle emergenze folgoranti, ma non rare, della reversibilità dei fenomeni, della invitta molteplicità e oscillazione delle pratiche. E ciò, ancora ben dentro il burocratico Settecento, da cui Sergio ci trasmette con viva partecipazione la voce dei suoi antichi compaesani. 1776: “Mi chiamo Francesco del fu Domenico Incrocci, ma mi chiamano anche Ceccottino per aver presa moglie una dei Ceccottini”. 1751: “Io ho nome Sebastiano, mio padre si chiamava Giovanni di Antonio, che non ho casato alcuno”. Quello dell’instabilità e riformulazione delle definizioni cognominali è un dato che le nostre ricerche possono mostrare anche per il Mezzogiorno e la Sicilia. La sintesi di lungo periodo di Gérard Delille, componendo armoniosamente esempi relativi a Manduria, Amalfi e Procida, dà esatto conto di ogni aspetto della reciproca adattabilità fra modulazione dei gruppi di discendenza e creatività onomastica, senza dimenticare il ruolo avuto in materia dal soprannome. La lenta e contrastata storia della normalizzazione del cognome contempla, e poi lascia comunque sopravvivere dopo il suo (relativo) completamento pratiche d’uso più libere, in cui i soprannomi ereditari sono un elemento essenziale per l’identificazione di quelli che l’antropologia sociale analizza come

i problemi d’interdipendenza fra riconfigurazione periodica degli assetti proprietari e variabilità nell’identificazione delle famiglie esaminati da Alma Poloni per la Montagna Bergamasca.

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segmenti di parentela30. Quanto all’altro approfondimento microstorico, il già citato saggio di Rita Foti su Corleone fra metà Duecento e fine Cinquecento entra con estrema precisione nel meccanismo di incessante elaborazione e rielaborazione dei cognomi quali ‘composti mobili’, variamente assemblati negli atti notarili basso medievali, nei registri parrocchiali lungo tutto il Cinquecento e nel censimento di persone e beni del 1593. Solo quest’ultimo documento comincia a proporre una standardizzazione della coppia prenome/cognome, che comunque irrompe come una forzatura brusca rispetto alla disponibilità fin lì mostrata da notai e parroci a rincorrere le vicissitudini onomastiche dei Corleonesi, originari e immigrati ‘lombardi’. Insomma, rivedendo il senso e riformulando gli obiettivi della nostra domanda sull’origine del cognome, siamo arrivati a mettere in discussione il valore assoluto del termine stesso. Il confronto tra l’esito contemporaneo e attuale del processo e l’evidenza della persistente relatività dell’adozione e dell’uso del cognome fra Medioevo ed età moderna – in ogni parte d’Italia, a prescindere dalle priorità nell’inizio dei processi – ci ha chiarito un punto chiave, che va sottolineato con forza: la storia della formazione del cognome non è districabile da quella della sua registrazione da parte dei rappresentanti delle burocrazie statali ed ecclesiastiche attive nel paese, i cui lasciti documentari furono al tempo stesso attestati e attori di un’opera di cognomizzazione di cui noi possiamo studiare a fondo le carte archivistiche ma solo indovinare le pratiche reali. Su questo aspetto, altri saggi compresi nel volume portano acquisizioni molto importanti. Circa la questione nodale degli effetti dei decreti tridentini, l’analisi del caso di Venezia proposta da Jean-François Chauvard mette bene in risalto le linee di tendenza e di contrasto in una situazione in movimento. Mentre appare chiaro che sul lungo termine l’obbligo di tenere registri onomasticamente ordinati indusse i parroci a concentrarsi essi per primi sulla presenza o meno del dato formale del cognome, fino a lasciare spazi e puntini dove mancava, è pur vero che anche dopo la conclusione del Concilio essi adottarono varie tipologie Il riferimento di base è ovviamente al classico studio dello stesso G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli, XV-XIX secolo (1985), trad. it. Torino, Einaudi, 1988. Due ricerche puntuali su questo uso dei soprannomi per l’area meridionale: B. Palumbo, Antroponimia, identità e parentela in un paese del Sannio (1992), in Id., Identità nel tempo. Saggi di antropologia della parentela, Lecce, Argo, 1997, pp. 21-74; M. Le Chêne, Usage et transmission des surnoms dans un village albanais d’Italie du Sud, in “L’Homme”, XLIV (2004), pp. 153-172.

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alternative o aggiuntive di riconoscimento dei loro parrocchiani: persone che magari ‘avevano un cognome’, cioè avrebbero potuto essere registrate secondo la semplice coppia prenome/cognome, ma che il prete, forse per maggiore aderenza a un’esperienza quotidiana condivisa, preferiva identificare corredando il prenome di indicazioni locali, professionali, o anche più marcatamente personali. La suggestiva indagine di Chiara La Rocca su Livorno sfrutta con successo l’occasione di mettere a confronto due logiche e procedure amministrative diverse alle prese con il medesimo caso di una storia dotata di un punto di partenza ben definito. Nel primo decennio del Seicento, nei registri granducali di ammissione in città degli immigrati attirativi dalle leggi “Livornine” del 1591 e 1593, oltre il 70% di quei personaggi – improbabilmente annoverabili fra i più inquadrati dell’epoca – risultava provvisto di un cognome31. Nei successivi registri parrocchiali dal 1611, che La Rocca mostra con certezza riguardare in misura molto maggiore i numerosi nuovi venuti che i pochi Livornesi originari, l’attestazione del cognome si dimezzava al 35%. Non occorre insistere sull’evidente differenza dei contesti e dei comportamenti, degli interroganti e degli interrogati. Ma c’è dell’altro. Nei registri ecclesiastici il numero complessivo dei cognomi cominciò invece ad aumentare sensibilmente dal 1630, cioè all’indomani dell’erezione della pieve di Livorno in prepositura, con conseguente riorganizzazione dell’istituto; tuttavia, se si cerca di ritrovare il singolo cognome da una generazione all’altra attraverso i decenni, il più delle volte si rimane delusi: i cognomi sembrano svanire, e ciò in una proporzione difficilmente spiegabile con la sola mobilità demografica, senza che si debba far nuovamente appello alle infinite dinamiche dell’interazione fra interroganti e interrogati. Un ulteriore, umanissimo aspetto della questione burocratica è al centro della precisa e pertinente analisi che Luigi Peruzzi ha dedicato a varie località della Montagna Pistoiese nel Cinque e Seicento. Anche qui, grosso modo, sul lungo termine, non c’è dubbio che la tendenza alla cognomizzazione si faccia strada, e ormai con nettezza alle soglie del Settecento. Ma intanto, che significava avere o non avere un cognome per gli abitanti di quei villaggi e nei libri delle loro amministrazioni? A Popiglio nell’estimo del 1545 figurano dotati di cognome 5 intestatari su

Per questa parte della sua ricerca Chiara La Rocca ha ripreso i dati contenuti nella tesi di laurea triennale di Eugenio Carini, Immigrazione, identità, cognome. Livorno fra Cinque e Seicento, Università di Pisa, a.a 2010-2011.

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100; in quello del 1569, 5 su 302; in quello del 1576, appena sette anni più tardi, 210 su 240. Un uomo che si sposò a Piteglio nel 1592 come Bastiano di Agnolo di Salvatore, senza portare cognome, era stato battezzato a Popiglio nel 1569 come Bastiano di Agnolo di Salvatore Notari. Più in generale, mentre allora a Piteglio tutti parrebbero privi di cognome, a Popiglio tutti ne risultavano provvisti. Non sappiamo nulla dell’impiegato dell’estimo del 1576, ma il piovano di Popiglio all’epoca, Girolamo Magni, è una nota e studiata figura di colto prete tridentino, evidentemente un uomo che amava tenere la penna in mano32. Anche il contributo di Gianluca Camerini, che ha riferito al nostro gruppo i frutti della sua esperienza di ideatore e organizzatore del progetto culturale e archivistico “La Memoria dei Sacramenti”, torna con competenza su questo aspetto particolare ma non trascurabile della personalità dei parroci, del loro livello d’istruzione, del loro grado d’inserimento nelle comunità. Naturalmente la sottolineatura degli aspetti di relatività e incompiutezza del processo di affermazione dei cognomi non toglie che sia possibile cogliere e seguire con sufficiente chiarezza le tracce di un’evoluzione burocratica in senso stabilizzatore, che ha finito col condizionare la cultura onomastica stessa degli Italiani e consolidare, almeno sul versante delle occorrenze pubbliche e ufficiali delle loro vite, l’affermazione della coppia prenome/cognome; anzi, più esattamente, cognome/prenome. Il fenomeno – come viene più volte accennato in vari saggi del nostro volume, come sa ogni esperto di registri parrocchiali, e come del resto andrebbe indagato con più sistematico impegno – comincia ad apparire evidente durante il Settecento nel sempre maggiore affinamento del lavoro amministrativo dei parroci, i quali ormai non si limitavano a redigere stati d’anime sempre più sistematici e precisi, ma spesso si preoccupavano anche di riordinare, uniformare e fornire di indici tutti i registri, più o meno abborracciati e confusi, lasciati in canonica dai loro predecessori a partire da fine Cinquecento. Vale la pena, per spiegare gli effetti di una tale attitudine, citare un caso singolo ma esemplare. Nei libri battesimali di Savignano di Romagna, oggi Savignano sul Rubicone, nei primi anni del Seicento compaiono ripetutamente le nascite dei figli di uno stesso uomo che ogni volta è chiamato diversamente (e senza cognome, come all’epoca

Su di lui vedi A. Prosperi, I benefici delle lettere. La carriera di un prete tridentino, in Il diario del Pievano Girolamo Magni. Vita, devozione e arte sulla montagna pistoiese nel Cinquecento, a cura di F. Falletti, Pisa, Pacini, 1999, pp. 23-42.

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avviene per altro a quasi tutti gli abitanti di questa cospicua comunità di pianura dell’Italia settentrionale, posta sulla via Emilia fra Cesena e Rimini). Mettendo insieme tutte le diverse combinazioni onomastiche di tutti i battesimi, l’uomo risulterebbe essere Marcantonio di Lorenzo (patronimico) della Gentile (matronimico, una vedova?) dell’Albarazzo (podere) da Gatteo (paese vicino a Savignano). Ma il curato che poi nei decenni centrali del Settecento resse la parrocchia per quarant’anni, e risistemò tutti i registri precedenti corredandoli di indici dei nomi, ha interpretato questi dati con una normalizzazione drastica: “Gentili Marcantonio”, contenente anche, come si vede, l’invenzione, non saprei dire quanto duratura, di un cognome33. La tendenza rappresentata dai più zelanti parroci settecenteschi si realizzò infine con la successiva vicenda dell’introduzione dello Stato civile. In periodo francese il Regno d’Italia cercò – come mostra bene un vecchio ma sempre fondamentale studio di Andrea Schiaffino34 – d’impiantare dapprima un sistema autonomo dall’esperienza e dalle risultanze della burocrazia ecclesiastica, per ripiegare poi con maggiore realismo sul ricorso alla collaborazione obbligatoria da parte di quest’ultima. Per quanto parziali, gli effetti dei censimenti napoleonici hanno segnato una svolta storica, e consegnato agli archivi di tanti comuni italiani un patrimonio d’informazione demografica inestimabile. A me personalmente è capitato, in una ricerca conclusa prima dei lavori comuni del nostro gruppo, di poter analizzare proprio il versante onomastico della premura statistica che tanto caratterizzava la polizia amministrativa del Regno d’Italia. In seguito a una segnalazione giunta nel maggio 1812 dal Dipartimento del Musone (capoluogo: Macerata) sulla presenza di numerosi individui e famiglie tuttora privi di cognomi e identificati coi soli patronimici (nella forma, ritenuta ambigua, “Di + prenome”), il governo centrale, insediato a Milano, ordinò subito un’inchiesta al riguardo limitatamente al Musone, poi emanò, l’11 giugno 1813, un decreto generale sull’obbligo di portare un cognome ‘regolare’ (non “Di Benedetto” ma “Benedetti”), cui fece infine seguire una nuova inchiesta estesa a tutto il Regno. La documentazione

Savignano sul Rubicone, Archivio della Parrocchia di S. Lucia, Libri di Battesimi, n. 2, cc. 43v, 89r, 133v, 177r. 34 A. Schiaffino, L’organizzazione e il funzionamento dello stato civile nel Regno italico (1806-1814), in “Cahiers internationaux d’histoire économique et sociale”, III (1974), pp. 341-420. 33

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risultante, quasi tutta conservata, di questa singolare vicenda permette di seguire da vicino un episodio decisivo di intervento burocratico sulle pratiche onomastiche correnti, e di constatarne le conseguenze più rilevanti. Ciò che più colpisce è che la pretesa di separare nettamente chi aveva da chi non aveva un cognome tracciò una distinzione alquanto artificiale all’interno di una popolazione il cui tratto saliente era, sotto il profilo onomastico, proprio la difformità e pluralità delle designazioni anche a brevissime distanze di tempo e di luogo35. Imponendo la coppia cognome/prenome sulla quale erano concettualmente e formalmente impostati i suoi schedoni prestampati, la burocrazia napoleonica dettava un modello forte, che alla fin fine risultava però anche assai semplificatore: come s’è già intravisto e accennato per altri casi sopra ricordati, in specie quello di Corleone studiato dalla Foti, l’acquisizione del cognome non comportava tanto l’aggiunta di un elemento di denominazione quanto la radicale decurtazione, almeno in ambito ufficiale, della pletora delle precedenti designazioni concorrenti. L’opzione precisa e forte espressa nel Regno d’Italia, corrispondente in campo onomastico agli indirizzi complessivi del governo napoleonico in materia di stato civile, non rappresentava comunque ancora una posizione scontata. L’esperta e appassionante ricerca che Fausta Gallo ha dedicato nel nostro volume all’Abruzzo teramano nella prima metà dell’Ottocento mette in luce una realtà addirittura opposta. Di fronte alla segnalazione, simile a quella maceratese di vent’anni prima, di case e persone ‘senza cognome’, la burocrazia borbonica della Restaurazione adottò un atteggiamento di deliberata e consapevole astensione da ogni imposizione, che rispetto all’interventismo di stampo francese si giustificava esplicitamente in termini di delega della soluzione del problema ai rimedi insiti nella “natura stessa delle cose”. Il contrasto, così netto su questo punto, non va certo tradotto in generalizzati schematismi grossolani; ma quanto alla storia dei cognomi, può essere la spia di un fenomeno macrolinguistico che merita una sottolineatura: la maggiore presenza, tuttora, di cognomi patronimici (nella forma “Di + prenome”) nel Sud che nel Centro e Nord d’Italia (e in Abruzzo più che nelle Marche) deriverà, come conseguenza particolare e piccola ma interessante, dal fatto che prima della chiusura dei giochi onomastici, con lo stato civile dell’Italia unita, le diverse parti

Per maggiori dettagli e approfondimenti vedi R. Bizzocchi, Marchigiani senza cognome. Un’inchiesta nell’Italia napoleonica, in “Quaderni Storici”, XLV (2010), 2, pp. 533-584.

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del paese avevano sperimentato configurazioni diverse dei rispettivi rapporti con le macchine amministrative degli Stati. Lo stato civile unitario appena ricordato, entrato in vigore il 1° gennaio 1866, segna lo spartiacque della storia dei cognomi italiani fra società e istituzioni, e non ha potuto non costituire, dal nostro punto di vista, un orizzonte di riferimento. Siamo ben consapevoli che la storia è continuata, in molte e assai notevoli direzioni. Gli stessi Stati che hanno imposto alle persone di assumere nomi stabili le hanno talora anche costrette a cambiarli, per ragioni politiche, razziali, religiose; è successo anche in Italia, all’indomani della Prima Guerra Mondiale e poi durante il Fascismo. Altre persone hanno desiderato e spesso ottenuto di cambiare nome, più precisamente cognome, anche per ragioni assai meno drammatiche. Altre ancora, i trovatelli, hanno sperimentato a lungo sulla loro pelle la durezza di una discriminazione che nei loro confronti si esercitava già fin dalla identificazione onomastica. Sono tutti temi di grande importanza, e sui quali esistono già bibliografie consistenti: per non ignorarli del tutto, abbiamo fatto ricorso a Marco Lenci, che ci ha aiutato col vivace e interessante saggio di sintesi compreso nel volume. Altro ancora ci sarebbe, vi ho accennato un poco qui sopra. La fissazione del sistema binominale secco prenome/cognome comporta in realtà una riduzione di possibilità e un irrigidimento di scelte, tali da lasciare scoperte funzioni e occorrenze sempre pronte a rinnovarsi; donde la vitalità e il significato dei soprannomi, individuali ed ereditari. Essi sono serviti o servono intanto a distinguere le famiglie e le persone entro comunità dove il numero dei cognomi è limitato, come nel caso celebre di Chioggia; ma anche a identificare segmenti specifici di condivisione di proprietà materiali e simboliche all’interno di parentele allargate; e ancora – come soprannomi individuali – a riconoscere, aggregare ed eventualmente gerarchizzare i membri di un gruppo, di una classe, di un reparto, di una squadra. Una cosa per volta. Speriamo che quella su cui ci siamo soprattutto concentrati durante questo biennio di lavoro comune, e che cerchiamo qui di proporre al meglio ai lettori, trovi da parte loro un interesse pari a quello che ci ha animato e ispiri un riscontro di reazioni, critiche e suggerimenti utili a riprendere le nostre ricerche con nuove questioni e ulteriori domande.

Recherche de la stabilité et recherches sur l’instabilité anthroponymique moderne Gregorio Salinero Université Paris I Panthéon-Sorbonne

Plus que d’autres, les travaux d’anthroponymie sont partagés entre deux orientations contradictoires: d’une part, ils s’efforcent de rendre compte de la très grande diversité des formes de nomination, des changements de noms, de l’apparition de modes, de l’irréductible diversité des comportements et des contextes; d’autre part, et le plus souvent au moyen de la statistique, ils tentent de dégager de la somme des cas originaux des règles de transmission, les contours de quelque système de nomination. La mise au jour de tels systèmes de nomination par les travaux remarquables des historiens médiévistes n’équivaut nullement (comme on pourrait être porté à le croire par erreur) à postuler que l’époque moderne voit triompher la stabilité anthroponymique. Bien au contraire, ces travaux ont ancré les questions de la dénomination des individus dans la diversité et la turbulence1. En effet, si des chaînes de nomination plus complexes apparaissent et se répandent, il n’en demeure pas moins que les noms des individus sont très changeants. Les transformations qu’engendre l’adoption de ces nouvelles références provoquent des tensions nées entre celles-ci et les modalités onomastiques plus anciennes qui limitent à un seul nom l’appellation des individus. Les résultas des études médiévales n’induisent donc pas d’évolution linéaire vers des systèmes stables et intégrateurs des individus. Il faut entendre tout au contraire que si de nouveaux systèmes de nomination se mettent en place, les individus eux, continuent de changer de nom, de passer d’un cadre nominal à un autre ou bien de se mouvoir, au gré des besoins, au sein d’un même appareil de référence. Il ne s’agit 1 Se reporter aux publications de la série des rencontre d’Azay-Le-Ferron commencées en 1986 et au travail poursuivi par Monique Bourin depuis plus de vingt ans.

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nullement de nier que la transmission et la patrimonialisation des noms par voie patrilinéaire soit une réalité moderne, mais bien de comprendre comment deux phénomènes apparemment divergents semblent se vérifier concomitamment. Il est vrai que les travaux sur les liens de parenté ont longtemps été les seuls à aborder la question des noms et de la nomination; tout en privilégiant les phénomènes de stabilité, répétition des modalités de transmission, constitution et défense d’un patrimoine onomastique, relevé de stocks plus ou moins limités de noms. Afin d’appréhender dans un même mouvement les mécanismes conservatoires des systèmes de nomination et l’agitation dont ils enregistrent la vigueur il est nécessaire de s’intéresser aux diverses formes de mobilité de l’époque moderne tout en séparant les études du nom d’une stricte correspondance avec l’étude de la parenté. Sortir des familles pour étudier les noms.

Noms de famille et parenté La correspondance entre noms et parenté vise à fonder l’identité du groupe familial, elle n’a rien de nécessaire ni de mécanique. La défense de cette appartenance à un groupe par le nom ne constituait pas la seule fonction du système de nomination. Mais elle était si fortement enracinée dans les esprits qu’elle a souvent contribuée à infléchir l’enregistrement des pratiques nominales par les notaires, le personnel administratif lors de l’établissement des états civils ou bien lors de l’étude des familles. À cela, il faut ajouter que les recommandations religieuses telles que celles du concile de Latran 1215 (interdiction de consanguinité au 4e degré canonique, mais autorisation des doubles alliances entre familles différentes) ont sans nul doute pesées sur le développement d’un système de nomination à deux noms, nom propre et cognomen avec forte préférence pour le choix du patronyme. Dans une mesure difficile à estimer, les prescriptions du concile de Trente contre l’inceste jouèrent elles aussi dans le sens d’une stabilisation. Les pratiques exogamiques se rencontrent partout dans l’Europe médiévale et moderne. Elles sont cependant bien loin de faire disparaître les formes d’alliances endogamiques de longue durée. Les effets des uns et des autres sur les modalités de nomination et de transmission des noms sont loin d’être homogènes. Il semble que l’on ne puisse pas associer trop simplement exogamie à souplesse des pratiques nominales et endogamie à conservation rigide des noms. Au rang des difficultés à s’interroger sur ces

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points arrive en tout premier lieu la rareté des études de la parenté sur la très longue durée, suivie par la diversité des perspectives retenues par les divers travaux sur la question. On peut cependant évoquer quelques cas. Dans celui de Trujillo d’Espagne, il n’est guère possible de reconstituer les lignages nobles, au nombre de 18 groupes familiaux, au-delà de la première moitié du xve siècle2. Mais à l’exception de deux d’entre eux, les Corajo et les Añasco, leur nom a perduré jusqu’à la fin de l’époque moderne. Ces familles pratiquent des alliances exogames qui ne semblent guère perturber la transmission durable des patronymes. Celle-ci est d’ailleurs renforcée par la répartition préalable des charges de la municipalité à égalité entre plusieurs lignages ainsi que par la multiplication des majorats qui comportent l’obligation de conserver le nom du fondateur ou de celle qui transmet les biens. Les noms de famille composés sont d’ailleurs en nombre limités, qui soulignent l’alliance de deux lignages ou bien de deux branches lignagères d’importance: Corajo-Ramiro ou bien Vargas-Carvajal. L’aura acquis par nombre de ces patronymes durant la Reconquista (la reconquête de la péninsule sur les maures) dans laquelle s’illustrèrent plusieurs de leurs membres, affermit encore ce mécanisme de conservation. Reste que plusieurs d’entre eux disparaissent, et que leur ancienneté demeure limitée en comparaison des exemples fournis par quelques cas italiens3. De plus, les vertus conservatoires des noms associés d’ordinaire au majorat sont quelquefois contredites par la pratique. Ainsi, Diego de Vargas Carvajal part de Trujillo d’Espagne pour Los Reyes, vraisemblablement à la fin de l’année 1557 ou au début de 1558, afin d’y occuper une charge royale. Entre temps, sa femme Béatriz de

2 Féderico Acedo Trigo fut un érudit passionné par l’histoire de Trujillo. On retrouve sa trace dans quasiment tous les documents des archives municipales et paroissiales, qu’il a classée, numéroté et conservé, durant la première moitié du siècle xxe. En 1976, le manuscrit de son œuvre généalogique fut remis à la ville par l’un de ses héritiers. Les Linajes de Trujillo forment un très long texte manuscrit de l’érudit et généalogiste Federico Acedo Trigo, rangé en plusieurs séries qui portent sur 18 lignages: Altamirano, folio 1 à 64; Orellana, 65 à 128 / Sotomayor, 1 à 35; Mendoza 41 à 96; Corajo-Ramiro, 97 à 111; Chaves, 111 à 174; Loaisa, 175 à 22; Tapia, 223 à 272; Calderón, 263 à 334; Hinojosa, 335 à 366; Escobar, 367 à 414; Paredes, 415 à 502; Torres, 503 à 551 / Vargas, 1 à 48; Carvajal, 51 à 110 / Bejarano; Añasco et Pizarro dont on n’a pas pu relever les pages. 3 Sur ce point se reporter aux travaux remarquables de Sergio Nelli, dans ce volume même, sur le bourg de Montecarlo di Lucca, en particulier au cas du lignage des Moroni suivi du milieu du xive siècle au milieu du xviie siècle et dans lequel apparaissent plusieurs cognomens nouveaux durant cette longue période.

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Vargas restée sur place tombe malade et fait son testament peu de temps avant de mourir. Elle exige alors un nouveau système de nomination des héritiers, qui implique des restrictions à l’usage de son seul nom de Vargas et impose l’alternance des prénoms García et Juan pour l’héritier qui prendra la tête du majorat créé avant le départ de son mari pour les Indes. Si le nom est de toute évidence lié aux biens, et spécialement à la terre, on voit que ce lien qui a lui aussi une histoire est spécialement soumis aux changements. Dans son testament fait à Los Reyes, le 28 juin 1562, Diego de Vargas Carvajal ne peut qu’entériner le changement: “L’an passé de 1557, devant Diego de Morales, écrivain public de ladite ville de Trujillo, doña Béatriz de Vargas et moi […] avons passé un acte (de fondation) de majorat avec ce qu’elle tenait de Juan de Vargas, son père, au bénéfice de don Juan, notre fils aîné […] l’année suivante, en 1558, alors que j’étais absent, la dite Béatriz de Vargas est décédée et dans le testament et les dernières volontés qu’elle a consigné elle a déclaré et […] commandé que ceux qui succéderont à la tête du dit majorat s’appellent seulement du nom de Vargas voulant ainsi déroger à la clause de la fondation du dit majorat par laquelle elle et moi avions ordonné qu’ils se nomment Carvajal et Vargas”4. Don Juan n’utilise que le seul nom de Vargas. Sa fille Béatriz en fait de même. Il existe donc bien à cette époque une tendance au repli sur un seul nom de famille, le plus prestigieux, qui se confirme une nouvelle fois dans ces groupes importants, segmentés en de nombreuses branches latérales. Ce mouvement de sélection exclusive d’un nom s’accompagne ici d’une expansion de la place économique de la famille. Qui plus est, il se fait au détriment du nom de la branche paternelle. Les cas de changements de noms liés à la transmission des majorats sont courants. Dans le domaine andin, Carvajal n’est pas en odeur de sainteté, le nom est synonyme de brutalité des conquistadors et de comportement sanguinaire. Il est probable que ce fait ait pesé sur la décision de Béatriz qui apportait

“El año pasado de 1557 ante Diego de Morales escribano público de la dicha ciudad de Trujillo, yo doña Beatriz de Vargas […] hicimos una escritura de (asiento) de mayorazgo de cual la dicha Beatria poseia de Juan de Vargas su padre en don Juan nuestro hijo mayor […] después en el año de 1558 siguiente estando yo ausente falleció la dicha doña Beatriz mi mujer y en su testamento (de) ultima voluntad que hizo dijo […] y mandó que los que sucedieren en la dicha mejora y mayorazgo se llamasen solamente de apellido de Vargas queriendo cuanto esto derogar la claúsula del dicho mayorazgo en que ella y yo habíamos ordenado que se llamasen de Carvajal y Vargas”, Archivo de Protocolo del Archivo Minicipal de Trujillo (= APAMT), testament de don Diego de Vargas Carvajal, Los Reyes, 28/6/1562, notaire Pedro Carmona. 4

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l’essentiel des biens mis en commun pour la formation de son majorat en Estrémadure. Mais la volonté de pérenniser son nom seul, non accolé à un autre, a prévalu sur toute autre considération. Le nom se répète, le nom se conserve, mais le nom se change aussi au sein d’un groupe de parents. D’autant que les liens entre pratiques exogamiques et tendances à la conservation des noms ne sont pas intangibles. Gérard Delille a étudié l’exemple des alliances matrimoniales à Manduria dans les Pouilles (sur la base de la source du Libro Magno qui s’efforce de reconstituer les filiations par-delà les noms) tout en le comparant notamment aux situations de Guillestre et de Champoléon dans les hautes Alpes5. À Manduria, le premier groupe familial cité est celui des Agostino avec deux branches issues de deux cousins, Cicco et Paolo, et une troisième dénommée Maiorana. La branche des Maiorana disparaît durant la seconde moitié du xvie mais leur nom est repris par la branche de Paolo. Sur 132 mariages étalés sur deux siècles et demi très peu sont des mariages internes de type parallèle et patrilatéral. Malgré la séparation des branches il n’y a pas d’unions. Ce phénomène est démontré ailleurs par l’auteur, pour conduire à mettre en évidence deux règles: “on ne se marie pas dans le même nom que son père sauf homonymie évidente”; et on ne se marie pas dans le nom d’une des mères de sa propre lignée ascendante masculine. Ces règles qui apparaissent comme très larges et qui se retrouvent dans l’ensemble des cas étudiées constituent selon l’auteur une sorte de socle fondamental des comportements familiaux et débordent largement les recommandations de l’église. Elles sont très largement respectées au xvie et xviie siècle. Il faut bien comprendre que la segmentation des familles a pu diversifier les noms de lignages, mais que néanmoins les mariages se font au sein d’un groupe élargie qui a des origines lignagères communes et identifiées en tant que tel. Lorsqu’une segmentation du lignage originel se produit en une nouvelle branche, cette dernière tend à prendre un nouveau nom qui peut se présenter un temps comme un surnom. La correspondance entre le nom et la parenté est donc rompue. Il n’en devient pas moins un nom de famille dans la mesure où il est transmis durablement, y compris semble-t-il lorsque la mémoire de l’ancêtre unique subsiste. Ce faisant, les tendances exogamiques contribuent à leur manière à multiplier les changements de noms, sans nécessairement accroitre à l’infini le stock

5 G. Delille, Parenté et alliance en Europe occidentale. Essais d’interprétation générale, dans “L’Homme”, CXCIII (2010), pp. 75-136.

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général des patronymes. On peut en effet imaginer que les reprises de noms constatées à Manduria au xvie siècle, dans une période d’exogamie dominante, contribuent à conserver la mémoire de l’appartenance à un même lignage, sans toutefois que ceux qui se livrent à de telles reprises fournissent d’explication sur leurs motivations. En ce sens, l’exogamie ne contribue à l’instabilité des noms que dans une mesure limitée. Dans le courant du xviie siècle (la fin du xviie à Manduria) et au début du xviiie, les mariages internes se multiplient. Quand une telle alliance survient on parle de “bouclage consanguin”. La formule “mariage dans le même nom” est donc à comprendre au sens du lignage, pas nécessairement au sens du nom adoptée puisque la mémoire de l’appartenance lignagère reste associé à plusieurs noms. Ce faisant, le retour à une certaine endogamie ne doit pas être associé à une réduction du stock des noms. La souplesse demeure. Ainsi, les noms de famille doubles enregistrent diversement l’appartenance lignagère. À Verviers, les Wilkin sont des Grosfils: les Delle Thour sont en fait des Wilkin… Dans le cas de l’Estrémadure, il semble que la segmentation s’accompagne de l’adjonction d’un nom: Vargas-Carvajal, Orellana-Pizarro. Toutefois, l’association d’un nom à la terre par le biais du majorat, l’attachement aux noms les plus prestigieux tout comme la tendance à masquer les noms qui pourraient dénoter une mésalliance sont susceptible de rompre là aussi la correspondance entre anthroponymie et parenté.

Anthroponymie et aires culturelles Les études anthroponymiques portant sur diverses régions de l’Europe moderne démontrent à l’évidence qu’il existe des aires culturelles conservant une certaine homogénéité en ce sens que les noms (prénoms et noms de familles) qui en sont issus sont aisément identifiables et clairement perçus comme étant originaires d’une région particulière. Ainsi, en Navarre, les noms sont liés habituellement à celui d’une maison, telle Maria de Enecorena, fille de Maria de Enecorena, de la maison Enecorena (la casa de Eneco o de Íñigo), durant la seconde moitié du xvie siècle. Les autres noms du secteur sont composés d’un prénom chrétien ordinaire et de l’appellation du lieu de naissance. C’est ce que montrent les travaux d’Anna Zabalza sur la Navarre moderne6. Dans le cas de Majorque 6 A. Zabalza Seguín, La herencia duradera: Los apellidos en la Navarra Moderna, dans Un juego de engaños. Movilidad, nombre y apellidos en los siglos xv-xviii, estudios

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la tendance à l’hypergamie sociale et l’endogamie générale de groupes tels que les Xuetes (l’un des rares groupes de convers qui revendiquent cette identité historico-religieuse) contribue amplement à la formation d’un modèle anthroponymique reposant sur l’usage des noms de famille et la stabilité de leur transmission, malgré une très grande diversité religieuse et sociale. Certaines de ces caractéristique se retrouvent dans l’exemple irlandais étudié notamment par Ciaran O’sea et Éamon Ó Ciosáin7. Au point que, selon Éamon Ó Ciosáin il est légitime de déduire du nom des émigrés irlandais en France, leur lieu d’origine en Irlande, permettant ainsi une cartographie de l’émigration tout au long de l’époque moderne. La part d’homogénéité de ces domaines culturels et linguistiques est cependant bousculée par de multiples mécanismes. L’efficacité conservatoire des formes de reproduction est mise à mal par l’apparition de nouvelles références. Ainsi, en Navarre le nom de maison utilisé en tant que nom de famille demeure vivace jusqu’au xxe siècle. Il faut relever qu’il indique la puissance d’un lien au foyer sans que nous soyons toujours sûrs qu’il témoigne de la filiation au sein d’un même lignage. Toutefois, il n’est pas le seul nom de famille: d’ordinaire, c’est la transmission du nom de la mère d’une génération à l’autre qui en tient lieu. Cependant, au xviie siècle la transmission patrilinéaire du nom gagne du terrain. Ainsi, un certain Juan de Orbaiz Enecorena (descendant de Maria, évoquée plus haut) porte le nom du village d’origine de son lignage, mais aussi le nom de la maison héritée sans doute de sa mère, de plus il fait vraisemblablement usage du nom de celle-ci transmis en ligne matrilinéaire. Par ailleurs, l’influence espagnole dans cette région de langue basque explique sans doute que la transmission du patronyme y progresse depuis les villes jusqu’aux villages du piémont pyrénéen le plus reculé. Soumis à cet ensemble d’influences, les divers usages du nom demeurent donc souples durant l’époque moderne. Il serait cependant simplificateur d’imaginer que deux grandes catégories se font face: d’une part, celle des individus immergés dans les cadres d’un système de nomination relativement stable; et d’autre part, ceux qui de gré ou de force ont rompu avec les modèles en vigueur. La

reunidos y presentados por G. Salinero e I. Testón Nuñez, Madrid-Caceres, Casa de Velázquez, 2010, pp. 69-83. 7 C. O’Scea, Nominacion de los irlandeses en España, rechazo o asimilación (16001680), et É. Ó Ciosáin Apports de l’anthroponymie à l’étude de la migration irlandaise en France, dans ibid., pp. 121-138 et pp. 139-151.

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stabilité apparente de certains groupes de noms correspond quelquefois à des stratégies de défense qui masquent les changements d’individus et les mésalliances. L’étude de ces derniers dispensant en somme de toute référence aux structures en place. Les pratiques que révèle le Libro Verde fournissent un bon exemple de la complexité des stratégies suivies par les familles. Il s’agit d’un traité de généalogie aragonais apparu en 1503 et qui connaît nombre de versions et d’ajouts. Il dénonce les mésalliances entre vieux chrétiens et conversos en pistant les liens par les femmes et par la ligne masculine. Considéré comme infamant pour la noblesse et brûlé il est longtemps considéré comme purement fantaisiste. Or, les travaux en cours de Pedro de Montaner révèlent le contraire8. Lorsque les dénonciations sont vérifiables elles s’avèrent le plus souvent exactes. Dans le cas de filiations par les femmes, les choix anthroponymiques opérés dans les lignages semblent bien avoir permis de gommer les noms compromettant dans un système à noms multiples, pourtant réputé pour sa meilleure conservation de ceux des femmes. Retenons donc qu’à tout moment des choix tactiques peuvent être opérés dans l’enregistrement des noms comme dans les usages de ceux-ci, mêlant les diverses pratiques et les cadres de référence. Il n’est pas jusqu’aux très caractéristiques noms irlandais qui ne soient perturbés dans leur composante gaélique par l’irruption de noms anglais. En sorte que plusieurs générations de noms différents (noms gaéliques et noms anglais) sont repérables dans un ensemble pourtant très fortement identifiable. Il nous faut donc nous garder de postuler une aire culturelle stable à l’horizon de l’histoire de l’anthroponymie et tenter plutôt d’établir les contours de divers systèmes de nomination en relation avec un cadre religieux, linguistique et bien plus encore chronologique. Il s’avère spécialement nécessaire de s’interroger sur les diverses formes de stabilité apparente qui deviennent plus courante au cours du xviie siècle: système à deux appellations, prénoms/nom; usage du patronyme en tant que nom de famille; recours à des formes complexes à deux noms, notamment. Il convient de garder présent à l’esprit que le passage à un système à deux noms, nom propre (prénom français) et nom (un cognonem, patronyme

8 À ce jour, P. de Montaner, Senyor a Mallorca. Un concepte heterogeni, dans “Estudis Baleàrics”, XXXIV (1989), pp. 5-35; id., Famílies de jueus conversos mallorquins ennoblides a Sicília: els Tarongí iels Vallseca, dans “Lluc”, n. 850 (2006), pp. 18-25, El Libro verde de Aragón, Monique Combescure Thiry (intro. y transc.) y Miguel Ángel Motis Dolader (ed.), Zaragoza, Librería Certeza, 2003.

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ou matronyme généralement), n’équivaut pas à l’établissement d’un nom de famille qui suppose la transmission et la durabilité. Notons qu’il n’est guère aisé de décider à partir de quelle durée de transmission stable d’un cognonem il est légitime de parler de nom de famille. Enfin, ce nom doit-il s’appliquer à tous ceux et celles qui ont un lien de sang pour constituer un authentique nom de famille? Sans nul doute faut-il se garder d’assimiler ces évolutions à l’avènement d’un système anthroponymique européen stable. Il convient au contraire d’éclairer ses évolutions par des études de l’usage des noms dans le contexte d’une variété toujours accrue de systèmes de nomination de référence: noms de métiers, noms d’artistes, noms de soldats, noms d’esclaves, noms de migrants. Pour ce faire, il convient de distinguer entre étude des identités et recherche anthroponymique. L’identité déborde le nom qui tend à fixer et à renforcer une identité choisie ou subie. De même, mieux comprendre le jeu entre le renforcement des identités collectives et les itinéraires individuels contribuera sans doute à ne pas réduire l’anthroponymie à une extension de l’histoire de la famille.

Mobilité et instabilité anthroponymique moderne Plutôt que de postuler l’évolution vers un horizon anthroponymique stable réduit à quelques formes régionales, il convient de faire l’hypothèse de l’instabilité anthroponymique moderne (celle des groupes et celle des individus) très largement alimentée par les mécanismes de contact et les grands phénomènes migratoires, politique ou religieux qui atteignent une ampleur sans précédent: expulsions, déportations, esclavage, Réforme et Contre Réforme; sans oublier les conflits politiques, annexions (ainsi celle du Portugal par l’Espagne), sécessions, rébellions et autres périodes révolutionnaires. Ajoutons à cette longue liste la simple mobilité qui conduit des millions d’individus des campagnes vers les grandes villes, parfois via un séjour dans des agglomérations secondaires. Rappelons quelques chiffres. Les grandes colonisations de l’Amérique démultiplient en les exportant les différents systèmes de nomination. Dans le même temps, ce sont de formidables occasions de changer de noms pour de très nombreux individus. Les migrations d’Espagne vers l’Amérique impliquent 300 000 personnes au xvie et au moins 400 000 au xviie, si on se contente d’estimer le volume des départs9. Notons concernant ce 9 R. Sánchez Rubio, La emigración extremeña al Nuevo Mundo: exclusiones voluntarias y forzosas de un pueblo periférico en el siglo xvi, Madrid, Universidad de Extremadura,

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domaine qu’une partie non négligeable de ces mouvements engendre des retours et des migrations multiples internes au domaine américain et transatlantique. Côté péninsulaire, on compte la déportation de plusieurs dizaines de milliers de morisques en 1568 après la guerre des Alpujaras; puis l’expulsion d’environ de 300 000 d’entre eux en 160910. Pour la période 1450-1750, Pétré-Grenouilleau a estimé à 800 000 personnes le nombre d’esclaves déportés11. Lucile et Bartolomé Bennassar ont considéré pour leur part qu’environ 300 000 chrétiens faits prisonniers en Méditerranée avaient dû embrasser la foi musulmane durant l’époque moderne12. On peut estimer l’émigration des Irlandais vers les domaines hispanique et français à un volume compris entre 100 000 et 150 000 personnes durant les xvie et xviie siècles. La liste n’est pas exhaustive. Elle pourrait tout autant être complétée par l’installation de nombreux italiens sur le reste des côtes nord du bassin méditerranéen. Si l’on ajoute à ces quelques chiffres les mouvements divers qui ne font pas l’objet d’un enregistrement particulier, tel que le gonflement des grands ports atlantiques durant l’époque moderne, il faut estimer à des volumes considérables de plusieurs millions d’individus le nombre de migrants pour les xvie et xviie siècles. Dans le domaine atlantique, on peut considérer qu’un départ enregistré correspond à plus de deux migrations réelles. Le taux de retour et de voyages multiples se situe aux environs de 30% des départs. À cela il faut ajouter que la mobilité ne saurait se réduire à l’émigration. Elle mobilise les proches du migrant, des groupes constitués pour l’occasion, des prêteurs sur gage et nombre de membres des administrations locales. Une fois parti, l’individu maintient généralement des liens avec sa ville d’origine, donne ses biens à gérer, fait placer l’argent qu’il envoie et confie ses enfants en bas âge à une tierce personne. En sorte qu’on peut estimer à plus de quatre le nombre de personnes directement impliquées dans

1993 et C. Martínez Shaw, La emigración española a América (1492-1824), Oviedo, Archivo de Indianos, 1994. 10 A. Domínguez Ortiz, B. Vincent, Historia de los moriscos: vida y tragedia de una minoría, Madrid, Alianza, 1993. 11 O. Pétré-Grenouilleau, Les Traites négrières: essai d’histoire globale, Paris, Gallimard, 2006. 12 B. et L. Bennassar, Les chrétiens d’Allah: l’histoire extraordinaire des renégats, xvie et xviie siècles, Paris, Perrin, 2006, nouvelle éd. augmentée, et J.A. Martínez Torre, Prisioneros de los infieles. Vida y rescate de los cautivos cristianos en el Mediterraneo musulmán (siglos xvi-xvii), Barcelone, Edicions Bellaterra, 2004.

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les affaires nées des liens entre les villes de départ et l’Amérique13. Sans doute en va-t-il de même aux Indes où les plus modestes recherchent d’ordinaire le rapprochement avec un parent et la protection de la clientèle d’un puissant. Les mouvements migratoires ne conduisent pas à la formation d’une catégorie particulière de noms, moins encore à la constitution d’un système de nomination. Quelquefois le doute est permis, comme il en va du cas des peruleros, les “voyageurs au Pérou” de la péninsule ibérique, dont le surnom peut coller au nom de plusieurs générations, mais dont il n’est jamais certain qu’ils soient allés un jour aux Indes. La très grande majorité de ceux qui sont allés dans les Andes ne sont pas surnommés peruleros. Par ailleurs, il convient de distinguer ceux qui se trouvent pris dans un contexte linguistique et anthroponymique étranger de ceux qui exportent leurs noms dans un milieu de réception linguistique et religieux favorable, comme c’est le cas dans les colonies espagnoles pour les péninsulaires. Dans tous les cas cependant, il est des formes caractéristiques: hispanisation, francisation, adaptations linguistiques diverses, transpositions, changements purs et simples de noms, composition de noms mêlés. Les particularités ne manquent pas pour autant, ainsi les Irlandais dans l’armée espagnole ou française qui tirent parti de leurs noms commençant par la lettre “o”, et qu’ils se plaisent à faire valoir pour la particule de noblesse irlandaise “ô” en la transposant sous la forme de la particule “de”. Toutefois, le migrant est rarement doté d’un solide patrimoine onomastique, son nom alimente un pari contre le passé et une stratégie pour l’avenir. D’ordinaire, son nom est un piètre viatique pour espérer réussir ailleurs. D’autant que la mobilité spatiale se mêle généralement à son désir d’ascension sociale. Si le nom est le premier capital de l’imposteur, c’est qu’il a une forme d’efficacité sociale. Ainsi, en région parisienne durant la seconde moitié du xviie siècle, un certain Louis Roger évoque les noms d’une vraie nourrisse, mais qui n’a pas été la sienne, afin de se faire passer pour noble; le Chevalier Le Bon, lui, se présente en tant que noble de Montpellier avec force détail et références authentiques. Tout est vrai, mais ni l’un ni l’autre ne sont les hommes qu’ils prétendent être14. Dans le domaine

G. Salinero Une ville entre deux Mondes. Trujillo d’Espagne et les Indes. Pour une histoire de la mobilité à l’époque moderne, Madrid, Casa de Velázquez, 2006. 14 Exemples empruntés à V. Denis, Une histoire de l’identité: France, 1715-1815, Seyssel, Editions Champ Vallon, 2008. 13

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Atlantique, les cas de changements de nom pullulent, motivés par de multiples raisons. Le plus fréquent est sans doute motivé par les exigences liées à l’obtention d’une licence royale pour aller aux Indes. L’autorisation exclue notamment ceux qui ont des dettes impayées, ceux qui font l’objet d’une condamnation grave, les hérétiques de tous poils, ainsi que les convers et les morisques. Contourner la réglementation suffit à rendre compte des changements de noms15. Parfois, il semble que le candidat au départ ait seulement utilisé un titre de passage disponible pour accélérer les procédures. D’autres fois, il nous est quasi impossible d’expliquer un changement qui semble connu de tous. En 1601, la religieuse Gerónima de Jesús y San Agustín (Gerónima Núñez?), fille de Diego Serrano et de Mencía álvarez, donne diverses procurations, pour encaisser l’argent que son oncle, Gaspar Serrano, décédé au Pérou, leur a laissé à elle et sa sœur Francisca Núñez: “pour encaisser auprès de la caisse des défunts de Séville 5000 réaux laissés par Pedro Alonso de Paredes qui s’appelait auparavant Gaspar Serrano, son oncle, fils de Gerónimo Serrano”16. Francisca Núñez est décédée, si bien que Gerónima réclame à la fois sa part d’héritage et la part de sa sœur. Le changement de nom de Gaspar est connu, et il est peu vraisemblable qu’il procède d’une usurpation d’identité ou qu’il soit frauduleux. Toutefois, il est possible que Gaspar Serrano ait utilisé la licence d’un autre pour aller aux Indes, empruntant pour se faire le nom du titulaire de la licence, à moins qu’il n’ait fait la traversé sans papiers personnel, mais compris dans le groupe de la domesticité d’un noble fortuné17. Notons que les deux filles de la famille ne portent pas le premier nom de leur père, pas plus que le premier nom de leur mère. Retenons, concernant ici le cas des femmes, que l’apparente incohérence de la nomination n’est pas nécessairement le

G. Salinero, Sous le régime des licences. L’identification des migrants vers les Indes espagnoles, xvie, xviie siècles, dans Gens de passage en Méditerranée de l’Antiquité à l’époque moderne. Procédures de contrôle et d’identification, sous la dir. de C. Moatti et W. Kaiser, Paris, Maisonneuve & Larose / Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, 2007, pp. 345-367. 16 “Para cobrar de la Caja de los difuntos de Sevilla 5000 reales que dejó Pedro Alonso de Paredes que se llamaba Gaspar Serrano, su tio, hijo de Gerónimo Serrano”, APAMT, procuration, 9/1/1601, Juan de Lucio. 17 Sur les passagers clandestins à proprement parler, c’est-à-dire ceux qui embarquent sans licence, A.P. Jacobs, Pasajeros y polizones. Algunas observaciones sobre la emigración española a las Indias durante el siglo xvi, dans “Revista de Indias”, n. 172, XLIII (1983), pp. 439-479. 15

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signe de la manipulation des identités. Bien des exemples indiquent donc que dans le centre de la péninsule ibérique le système de transmission des noms ne sembles pas absolument arrêté au xvie siècle, du moins pas selon les règles ultérieures du cumul de noms venus de la branche paternelle et de la branche maternelle. La bigamie successive et les multiples cas de doubles vies engendrent davantage de camouflages d’identité. Qui plus est, on voit dans cas précédent que Pedro Alonso de Paredes, après avoir utilisé un autre nom, retrouve aisément son nom de famille à l’occasion du règlement d’une affaire d’importance18. Si les modifications semblent se faire avec tant de fréquence et de simplicité, c’est qu’en exportant les systèmes de nomination péninsulaires aux Indes, leur souplesse et leur permissivité d’origine à l’égard des changements sont conservés intactes par delà la mer océane. Le cas des régions italiennes est spécialement intéressant. Il semble parfois qu’une sourde lutte oppose les historiens pour savoir quelle région accède la première à l’usage d’un cognomi stable constituant un nom de famille. Sans doute la question constitue-t-elle un enjeu épistémologique d’importance, le Piémont semble en avance sur la Toscane sur ce point. Une géographie et une chronologie des usages à base statistique doit être établie afin de servir de référence à l’ensemble des étudies sociales. Toutefois, elle ne devrait pas négliger la part de l’instabilité et des brassages qui peuvent affecter l’Italie, particulièrement pour les périodes tardives des xviiie et xixe siècles. Les noms italiens du sud s’exportent vers Rome ou le nord de la péninsule; ils franchissent les frontières cependant que des phénomènes migratoires affectent parfois très tôt l’Italie: qu’advientt-il des noms des juifs de Livournes; comment subsistent les noms italiens au travers du bassin méditerranéen et au-delà? On se souvient que le texte de la très célèbre Livornina faisait allusion à la question des prénoms et les noms de famille. Le texte de 1593 accordant des privilèges commerciaux et fiscaux aux étrangers visait à attirer les marchands juifs ou musulmans susceptibles de dynamiser la région de Livourne et de Pise, le débouché de la Toscane des Médicis. Les auteurs du texte avaient pris la mesure de l’importance symbolique des noms en garantissant la sécurité de ceux qui viendrait et en leur assurant qu’ils ne seraient désormais plus contraient de se cacher, fusse sous un masque anthroponymique chrétien: “Nous voulons également que… vous ne soyez l’objet d’aucune… dénonciation

Sentencias del Consejo Con Francisco Noguerol sobre haberse casado dos veces, 1557, Archivo General de Indias (= AGI), série Escribania, 952/1535-1577.

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ou accusation, même si vous et vos familles avez dans le passé vécu hors de notre Domaine en tant que chrétiens d’habit ou de nom”19. Nul doute que ceux qui reprirent leurs noms furent nombreux. Il est vrai que les italiens émigrés eux-mêmes recourraient au changement de nom. Citons seulement le cas de cet italiano de Niza, un italien de Nice, convaincu de complicité avec les rebelles de Taxco qui voulurent s’emparer des mines d’argent de la région mexicaine en 1550. Les autres insurgés connaissaient le niçois en tant que Benito Torres, probablement un nom de famille italien espagnolisé. Mais celui-ci affirmait s’être toujours appelé Benito Castilla, un nom surprenant pour un italien né dans le village d’“Esperamonte”, un nom niçois hispanisé qui ne permet guère d’identifier précisément le lieu. Une sorte de faux toponyme en guise d’appellation. Il était aux Indes depuis onze ou douze ans et en avait passé huit au Pérou où il servait comme arquebusier dans la compagnie rebelle du capitaine Guevara. Fait prisonnier, il avait été condamné à l’exil du Pérou et à deux ans de galères. De fait, nous avons retrouvé sa trace (sous le nom de Benito Castillo, et non Castilla cette fois) parmi les hommes déjà condamnés par le président de l’audience de Lima, La Gasca, en 1549 à l’exil du Pérou, à la confiscation de tous ses biens et aux galères à perpétuité. Parvenu en Nouvelle Espagne et longtemps sans emploi, Benito s’était résolu à travailler dans un ingenio, une fonderie d’argent à Taxco, pour le compte du mineur García de Vega pour un salaire de 100 pesos, sans doute pour exercer une fonction de superviseur et de surveillant des esclaves de l’atelier. Pauvre et poursuivi par la justice, l’italien avait changé de nom et sans doute de prénom à plusieurs reprises avant d’être exécuté à la mie août 155020. D’autres se trouvaient dans une situation bien différente, tels les Fantoni, une famille de marchands florentins installés à Cadix21. Alliés à des familles gaditanes (les Villavicencio, les Gonzalez de Albelda, les Chilton) aussi bien qu’à d’autres familles de marchands florentins et génois présents en Andalousie (les Marrufo et les Sopranis), ils conservèrent néanmoins leurs noms entre le xve et les débuts du xixe siècle. Ce simple échantillon d’exemples démontre à l’envie la variété des pratiques de nomination. Texte complet de la Livornina dans R. Toaff, La nazione Ebrea a Livorno e a Pisa, 1591-1700, Firenze, L.S. Olschki, 1990, pp. 419-431. 20 Les accusations contre le dénommé “Torres” se trouvent en, Procès des rebelles de Taxco, AGI, Patronato 181, R. 15, f. 730-760. 21 J.J. Iglesia Rodríguez, El árbol de Sinople. Familia y patrimonio entre andalucía y Toscana en la Edad Moderna, Sevilla, Universidad de Sevilla, 2008. pp. 163 et suiv. 19

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Les noms en tant que marque et promotion de l’identité collective Prenons un autre exemple, cette fois en Estrémadure. Contrairement aux pratiques de nombre de familles aristocratiques de la péninsule Ibérique qui passaient à un système à deux noms de famille, parfois dès le xve siècle, la famille Pizarro adopta très tôt une pratique consistant à lier les garçons à un nom unique qui véhiculait le prestige militaire des soldats de la lignée. Pour eux, il n’était pas de stratégie aux petits pieds; faute d’être issu de l’union de plusieurs lignages nobles, ils conservèrent le nom le plus tinté d’hidalgía, de petite noblesse. L’arrière grand père du conquistador Francisco Pizarro avait pour nom Hernando Alonso de Hinojosa, et le père de son arrière grand-mère Gonzalo Díaz. Pour autant, le grand père Hernando Alonso Pizarro, délaissa les noms de la branche masculine pour ne conserver que le second nom de sa mère, Teresa Martínez Pizarro. Cette attitude peu en accord avec la conservation des patronymes a fait écrire à nombre d’érudit que le petit fils Francisco Pizarro aurait dû s’appeler Hinojosa ou bien Díaz22. Toujours est-il que l’aïeul du conquistador s’illustra dans les guerres d’Italie et que son propre père conserva ce nom unique. Mais trois des quatre fils Pizarro (Francisco le conquistador, Gonzalo le rebelle et Juan le cadet), furent des bâtards, en sorte qu’eux aussi continuèrent de ne porter que le seul nom de Pizarro, excluant celui tout à fait roturier de leurs mères respective. C’est précisément pour ne pas apparaître en tant qu’enfants adultérins ou naturels, que les membres de la bonne noblesse castillane s’attachent à porter deux noms de famille, évocateurs de leur double noblesse et de leur appartenance aux groupes de vieux chrétiens, fusent-ils des noms usurpés. L’apparente stabilité du matronyme Pizarro procédait donc d’une série de choix dérogeant aux pratiques de nomination communes. Mais ce comportement ne serait que très banal si le destin n’avait propulsé les quatre frères sur le devant de la scène atlantique. Parmi les Espagnols, les capitaines, les conquistadors et ceux qui reçurent des répartitions d’indiens, furent très fréquemment des donneurs de noms. Ce fut aussi le cas en Espagne où le propriétaire d’un esclave, parfois même l’employeur d’un domestique, sans nécessairement

M. Muñoz de San Pedro, Francisco Pizarro debió apellidarse Díaz o Hinojosa: Las rencillas familiares trujillanas y el cambio de apellidos en los ascendientes del conquistador del Perú, dans “Revista de Estudios Extremeños”, XXIV (1950), 3-4, pp. 503-542.

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appartenir à la haute noblesse, donnait son nom, et bien souvent son prénom, à son subalterne23. Aux Indes, ils donnaient leur prénom et parfois leurs noms de famille à un serviteur indien ou à un cacique administrateur d’un des villages pris dans leur encomienda. Très prisé par les contemporains, le nom de Pizarro connut une certaine diffusion accélérée après l’assassinat du marquis de la Conquête dans le palais du gouverneur à Los Reyes en 1541. Encore aujourd’hui, il est l’objet de nombre de convoitises, d’autant que la descendance des frères fut tout à fait réduite. Dès le début des années 1530, Martín, l’interprète indigène du Gouverneur Francisco Pizarro, prit le nom de son maître et se fit appeler Martín Pizarro24. Il suivra Gonzalo Pizarro dans sa révolte et perdra finalement les biens qui lui avaient été distribués par le gouverneur. Suite aux dénonciations du complot de Martin Cortés à Mexico, au milieu des années 1560, les auditeurs de l’audience firent arrêter et assigner à résidence près d’une centaine de personnes. Parmi elles, Diego Pizarro fut décrit par les délateurs comme un homme très fort, expert dans le maniement des armes, redoutable soldat venu du Pérou répandre l’insurrection en Nouvelle Espagne. En somme un comportement arrogant non dénué de quelque coquetterie: “homme très rude et doté de beaucoup de force un grand tireur d’arquebuse dont il a entendu dire qu’il est très courageux, c’est pourquoi je crois que c’est l’un des principaux conjurés”; “irréductible sectateur, homme d’une très grande force qui affiche partout son courage”. Quand l’ordre de se saisir de lui fut donné, il parvint à s’enfuir: “il était caché sur les terres du marquis del Valle… et il s’est vanté d’être des Pizarro, un membre du clan qui a trahi le service du roi et qui s’est soulevé dans le royaume du Pérou… un homme fourbe”25. Craignant d’essuyer les pires difficultés pour se saisir de lui, les membres de l’audience le traquèrent et parvinrent non sans mal à le mettre aux

A. Stella, Histoires d’Esclaves dans la péninsule ibérique, Paris, Editions de l’EHESS, 2000; G. Salinero, Maîtres, domestiques et esclaves du siècle d’or, avec dessins d’A. de Kermoal, Madrid, Casa de Velázquez, 2006. 24 M. Rostworowski de Diez Canseco, Senoríos indígenas de Lima y Canta, Lima, IEP Ediciones, 1978. 25 “Hombre rigoroso y hombre de mucha fuerza y grande arcabuzero que ha oido decir que es hombre muy valiente y por esto cree este testigogo que sería uno de los mas ciertos conjurados”; “incorregible facioneroso y hombre de mucha fuerzas que presume de valiente”; “se halló y escondió en tierra del marques del Valle… y se a alavado que es de los Pizarros y deudos de los que han traicionado al real servicio se alzaron en los reinos del Pirú… es hombre travieso”, AGI, série Patronato 218 R2 fol. 1-64. 23

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fers. Les commissaires royaux ordonnèrent rapidement qu’il soit soumis à la question, aux tourments de la corde et de l’eau, tormento de agua y cordelles, afin de faire céder un homme doté d’un caractère bien trempé. Mais avant même la première séance de torture dans les cachots de l’audience, Diego se présenta comme un modeste charpentier de 25 ou 26 ans. Les tourments de Diego s’intensifièrent “on lui a mis un entonnoir étroit dans la bouche… on y a versé une jarre d’eau… puis l’opération a été répétée; puis il a dit: arrêtez, je vais parler, attendez… l’entonnoir lui a été retiré et il a promis de faire consigner son témoignage; puis l’entonnoir lui as été remis et on y a reversé de l’eau…”26. Une trentaine de fois durant la même matinée, il fut soumis à cet infâme traitement. Il nia tout en bloc et admit seulement être le fils de Gonzalo del Corral y de Catalina Pizarra. Selon ses dires, il avait seulement pris le nom de sa mère. Notons toutefois que Pizarra est rarissime (un simple prétexte ici?) et qu’à tout prendre Pizarra ne vaut pas Pizarro. Enfin, il tenta dans un premier temps de cacher aux visiteurs qu’il était venu aux Indes pourvu d’une licence pour faire des bombes dans les chantiers de construction et les mines, une compétence qui ne pouvait qu’intéresser les rebelles. Il est clair que Diego, entré dans la ligue pour y perpétrer quelque mauvais coup, avait usurpé le nom de Pizarro pour faire encore grandir sa réputation de redoutable soldat et d’expert en arquebuses27. Nom emprunté certes, mais nom renforcé par le nombre de tous ceux qui veulent s’en emparer pour affirmer ce qu’ils sont ou ce qu’ils voudraient être. La sentence tomba: “selon la culpabilité établie à l’encontre du dit Diego Hernández Pizarro nous le devons condamner et condamnons à ce qu’il soit tiré de la prison où il se trouve et soit mis, pieds et poings liés et le torse nu, sur une bête de somme avec une proclamation publique de son délit et de la justice qui doit être faites; qu’il soit ainsi exhibé dans la cité par les rues accoutumées et que lui soient infligés cent coup de bâtons; nous le condamnons, en plus, à servir sa majesté sur les galères qui naviguent le long des côtes espagnoles en tant que rameur durant les quatre prochaines années sans aucun salaire et qu’il fournisse entièrement le dit service sans faillir sous peine de devoir le rendre pour le double de cette durée; et par la présente

“Y luego le fue puesta una toca delgada en la boca y por mandamiento de los dichos señores se le echaron un jarro de agua… y se le hizo otro tal apercibimiento el quel dijo yo diré esperar… fuele quitada la toca y dijo que levantaré testimonio y tornósele a poner la toca y a echarle agua…”, ibid. 27 Ibid. 26

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sentence définitive… nous l’ordonnons en imputant à sa charge les frais de justice”28. Il parvint finalement à faire commuer sa peine en simple amende. L’histoire de Diego démontre comment la pérennité d’un nom renforce les identités collectives et permet de souder les clientèles de tout un clan. Au-delà même de celles-ci, il créait des modes et des parentés fictives durables. Mais l’apparente pérennité s’échafaude sur la base de multiples changements préalables qui permettent de constituer une sorte de vitrine du nom. Notons que les historiens et autres généalogistes ont leur part de responsabilité dans la création de faux semblants anthroponymiques. Dans la généalogie d’un éminent biographe anglo-saxon des Pizarro, Francisco Pizarro (fils d’Hernando Pizarro et de doña Francisca Pizarro) est désigné sous le nom de Francisco Pizarro y Pizarro, un nom qui n’apparaît pas dans la documentation notariale29. Il s’agit d’un étiquetage logique, sorte de travail d’entomologiste scrupuleux, soucieux d’éviter les nombreuses confusions qui sont possibles, mais en rien de l’enregistrement d’une pratique du temps. C’est aussi une manière de souligner la concentration de noblesse et la somme vertueuse des héritages accumulés dans une seule personne, sorte de nom au carré. Après 1580, dans la documentation de Trujillo Francisco Pizarro apparaît en tant que Francisco Pizarro alférez, titre quelque peu symbolique de sergent des hommes d’armes. Avant cette date, son père puis son frère Juan accaparent cette charge; il est alors question de lui sous le simple nom de Francisco. L’aboutissement de ce processus à une stricte concentration sur un nom de famille est aussi rendu possible par le gommage du nom indien de la grand-mère maternelle de l’édile, Inés Huayllas Yupanqui. De fait, la mère de Francisco, fille de Francisco Pizarro et d’Inés (mariée avec son oncle Hernando) est toujours mentionnée sous la simple forme de Francisca Pizarro.

“Por la culpa que resulta contra el dicho diego Hernández Pizarro le devemos condenar y condenamos que de la carcel e prisión en que esta sea sacado cavallero encima de una bestia de albarda atado pies y manos desnudo de la cintura arriba con pregón público que manifeste su delito e la justicia que se manda hacer; sea traido por las calles publicas acostumbradas desta ciudad y le sean dados cien azotes; condenámosle más a que por tiempo y espacio de quatro años primeros siguientes sirva a SM en las galeras que andan en las costas de la mar en España e por galeote y sin sueldo y al remo el cual dicho servicio guarde e cumpla y no lo quebrante so pena que lo cumpla doblado; y por esta nuestra sentencia definitiva… lo… mandamos con costas”, ibid. 29 J. Hemming, La Conquista de los Incas, Mexico, FCE, 1982. 28

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Que les hommes de l’époque moderne aient recherché à établir un nom stable ne fait pas de doute. Mais le nom visé ne consistait pas nécessairement dans la conservation ou la transmission de celui de leurs pères. Les systèmes de nominations recélaient le plus souvent une grande souplesse et constituaient des cadres de références à l’égard desquels s’exprimait une grande tolérance. Le délit de changement de nom n’existait pas en tant que tel. Quelquefois les changements s’accompagnaient d’authentiques usurpations d’identité, mais généralement au contraire, ils visaient à renforcer des identités collectives en construction. Pour parvenir à renforcer celles-ci, les choix stratégiques et anthroponymiques engendraient des changements successifs, publics ou occultes selon le cas. Aussi, les études de l’anthroponymie moderne ne peuvent-ils se réduire à la reconstitution des familles ou bien à celle des stocks de noms (prénoms et noms de familles) et de leurs évolutions30. De tels travaux doivent s’efforcer dans le même temps de comprendre la volonté de changer de nom qui s’exprime tout au long de l’époque moderne.

Publié récemment, voir Anthroponymie et migrations dans la chrétienté médiévale, études réunies par M. Bourin et P. Martinez Sopena, Madrid, Casa de Velázquez, 2010.

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I cognomi italiani nel Medioevo: un bilancio storiografico Simone M. Collavini Università di Pisa

Questo contributo, nato su sollecitazione di Roberto Bizzocchi e pensato come funzionale all’impostazione di un gruppo di ricerca formato solo in parte da medievisti, si propone di fare il punto sullo stato degli studi sulla nascita e sulla diffusione di forme cognominali in Italia centrosettentrionale nel medioevo. Per farlo, ci si concentrerà sugli studi di un’équipe internazionale coordinata da M. Bourin sul tema della Genèse médiévale de l’anthroponymie moderne, cercando di rileggerli in funzione del nostro specifico questionario. Quel gruppo di ricerca ha prodotto alcuni volumi collettivi sulla Francia, sulla Penisola Iberica e sull’Italia. Le ricerche condotte sull’area italiana, che più da vicino ci interessano, sono state coordinate da F. Menant e J.-M. Martin: esse consistono in oltre un migliaio di pagine di studi, pubblicati nelle “Mélanges de l’École Française de Rome” e in un volume1. Sebbene non certo limitati al nostro tema, questi saggi disegnano un utile quadro dello stato delle conoscenze e offrono spunti importanti, a chi intenda studiare i nostri problemi anche in epoche successive. 1. Come è ben noto, nell’alto medioevo vigeva un sistema onomastico basato sul nome unico: ogni individuo aveva un solo nome, latino o 1 Genèse médiévale de l’anthroponymie moderne: l’espace italien. Actes de la table ronde (Rome, 8-9 mars 1993), in “Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge-Temps Modernes” [d’ora in poi “MEFRM”], CVI (1994), pp. 313-736; Genèse médiévale de l’anthroponymie moderne: l’espace italien. 2. Actes de la table ronde (Milan, 21-22 avril 1994), in “MEFRM”, CVII (1995), pp. 331-633; Genèse médiévale de l’anthroponymie moderne: l’espace italien. 3. Actes des séminaires (Rome, 24 février et 7 avril 1997), in “MEFRM”, CX (1998), pp. 79-270; L’anthroponymie: document de l’histoire sociale des mondes méditerranéens médiévaux. Actes du colloque international (Rome, 6-8 octobre 1994), a cura di M. Bourin, J.M. Martin, F. Menant, Roma, École Française de Rome, 1996. All’interno di questi volumi è possibile trovare i rinvii al resto della produzione (quella ‘transalpina’) dell’équipe coordinata da M. Bourin.

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germanico che fosse2. Quando per specifiche circostanze si voleva definire con maggior precisione un individuo, per esempio al momento di mettere per iscritto una donazione o una compravendita, si ricorreva ad alcuni elementi accessori (impiegati singolarmente o cumulativamente): in primo luogo la filiazione (nella forma Albertus filius [quondam] Guidi) o un altro rapporto di parentela (Albertus frater Ildibrandi, Guilla uxor Alberti). In secondo luogo e in minor misura, erano impiegati dei riferimenti toponimici (Albertus de loco Arsago [o de civitate Florentia]). Di uso ancor più occasionale erano altri elementi che avevano la medesima funzione di meglio precisare l’identità dell’individuo, ma erano confinati a particolari gruppi: i titoli, connessi o meno all’esercizio di cariche pubbliche (comes, vir magnificus, gastaldus, vassus); le dichiarazioni di status o di nazionalità (clericus, servus, alamannus); i nomi di mestiere (negotians, aurifex, magister, massarius). Tali elementi, e in particolare i primi due (patronimico e toponimico), non facevano parte del nome vero e proprio dell’individuo evocato. Lo mostrano innanzitutto l’occasionalità e l’opzionalità del loro impiego. Di norma, nelle carte private (donazioni, locazioni, compravendite) patronimico e toponimico sono usati in riferimento agli attori, mentre solo di rado si impiegano per i testi o per i confinanti. Patronimico e toponimico, dunque, erano elementi accessori che, in determinati contesti espressivi e soprattutto in contratti scritti destinati a conservare a lungo nel tempo validità, definivano più precisamente l’identità degli individui, per evitare i possibili equivoci frutto di un sistema onomastico basato sul nome unico. Per servirsi di un’analogia tratta dalla nostra esperienza quotidiana, questi elementi avevano una funzione e un valore analoghi a quelli che hanno oggi la data di nascita, la residenza e il codice fiscale in una dichiarazione ufficiale: informazioni volte a una più sicura identificazione personale, ma non veri e propri elementi onomastici. Più stabili e coerenti nell’uso – e più spesso impiegati anche per chi non era attore del negozio – sono gli elementi del terzo tipo (titoli pubblici ed ecclesiastici, dichiarazioni di status e nomi di mestiere). I titoli connessi all’esercizio di cariche pubbliche e, ancor più, le dichiarazioni di status ecclesiastico sono, infatti, usati con tale sistematicità che li si potrebbe considerare a pieno titolo parte dell’identità onomastica di molti di coloro

2 Un’utile guida in J. Jarnut, Avant l’an mil, in L’anthroponymie: document de l’histoire sociale, cit. pp. 7-18.

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che li portavano (sebbene il ‘nome proprio’ ne rimanesse il cardine). In ogni caso la quantità di individui interessati dal fenomeno era ristretta e tale da non mettere in discussione il predominio del nome unico. Un esempio chiarirà questo punto. Come ha osservato M. Ginatempo in un contributo dedicato al sistema onomastico vigente nell’area circostante al monastero di S. Salvatore all’Isola (in Toscana centrale)3, si può cogliere il carattere più o meno accessorio dei diversi elementi onomastici alto medievali, osservando che nelle carte gli attori sono citati in forma estesa al principio del documento (per esempio Albertus filius quondam Guidi de loco Montione), ma sono ricordati in seguito con il solo nome (nel nostro caso Albertus). Non altrettanto si può dire, invece, degli elementi del terzo tipo (essi sì parte integrante del nome): se la prima occorrenza è Iohannes clericus filius Erithei de civitate Luca o Ildebrandus comes filius Rainerii comitis le successive menzioni saranno Iohannes clericus e Ildebrandus comes – e non semplicemente Iohannes o Ildebrandus. Nell’alto medioevo, insomma, i titoli erano elementi più stabili e meno accessori dell’identità onomastica personale rispetto a patronimici e toponimici. 2. Al di là di scarti minori, dunque, il sistema onomastico alto medievale si basava sul nome unico, ma nel corso del pieno medioevo (secoli XI-XIII) esso conobbe una radicale trasformazione. Infatti, nel primo Trecento quasi tutti gli individui portavano ormai nomi costituiti da due elementi (nomen e cognomen), occasionalmente integrati da elementi accessori. Sebbene si tratti di due fenomeni chiaramente intrecciati fra loro, non bisogna confondere l’affermazione del nome a due elementi con la nascita del ‘cognome’ in senso moderno. Gli attuali cognomi (che sono nomi di famiglia ereditari, obbligatori e con funzione identificativa prevalente rispetto al nome proprio) sono, infatti, solo una delle varie forme di nome doppio storicamente determinatesi. I cognomina basso medievali (il secondo membro del nome doppio allora dominante) potevano essere costituiti da elementi molto diversi fra loro: patronimici, toponimici, soprannomi, indicazioni di mestiere o veri e propri nomi di famiglia. Ancora incerte ne erano inoltre la fissità nel tempo per il singolo individuo e ancor più la trasmissione ai discendenti. Infine, essi non avevano ancora assunto una funzione

3 M. Ginatempo, Tracce d’antroponimia dai documenti dell’abbazia di San Salvatore all’Isola (Siena) 953-1199, in “MEFRM”, CVI (1994), pp. 509-558; 520-521.

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prevalente nell’identità dell’individuo e nella sua percezione da parte della società circostante. Era invece la coppia nomen/cognomen a identificare in prima battuta ciascuna persona. Le ricerche dell’équipe coordinata da M. Bourin, condotte sulle fonti seriali e sugli atti notarili, hanno precisato la cronologia del cambiamento, disteso in Italia tra XI e XIII secolo (e quindi leggermente in ritardo rispetto ad altre aree europee), e le sue consistenti varianti regionali. Nell’ultimo dei seminari dell’équipe ‘italiana’, poi, è stato affrontato lo specifico problema della ‘fissazione’ del cognomen e della sua trasmissione ai discendenti. Il gruppo, secondo una pratica di organizzazione della ricerca caratteristica della medievistica ‘italiana’, ha dato origine a due équipes distinte, che hanno studiato rispettivamente l’Italia Centro-Settentrionale e l’Italia Meridionale. Si cercherà di dar conto qui dei risultati raggiunti sulla prima di queste aree, proponendone in parte una rilettura4. Non ci si soffermerà invece sull’Italia Meridionale, sia per ragioni di spazio, sia perché i risultati raggiunti non mi paiono del tutto univoci e non offrono un quadro pienamente coerente. Sebbene l’équipe coordinata da F. Menant abbia trattato l’Italia Centro-Settentrionale come un’unità discreta e omogenea, è forse più utile provare a circoscrivere due aree distinte, portatrici di sistemi antroponimici diversi. Come per altri aspetti delle strutture sociali e politiche del pieno medioevo, Italia Settentrionale e Italia Centrale mostrano, infatti, evoluzioni discordanti e relativamente omogenee all’interno di ciascuna macro-regione. Sebbene le sintesi in tale direzione siano solo all’inizio, la scelta di considerare l’Italia Centrale (Toscana, Umbria e Marche), come una realtà con caratteristiche proprie pare promettere risultati molto significativi, non diversamente da quanto è avvenuto quando nella storiografia francese è emerso uno specifico interesse per il Mîdi come regione storica e non solo come variante ‘arretrata’ delle evoluzioni caratteristiche della Francia Settentrionale5.

4 Gli esiti dell’indagine collettiva sono sintetizzati in F. Menant, L’Italie centroseptentrionale, in L’anthroponymie: document de l’histoire sociale, cit. pp. 19-28; cfr. anche Id., Entre la famille et l’État: l’héritage du nom et ses détours dans l’Italie des communes, in “MEFRM”, CX (1998), pp. 253-270. 5 Un buon punto di partenza per riflettere su entrambi gli aspetti è I poteri territoriali in Italia Centrale e nel Sud della Francia. Gerarchie, istituzioni e linguaggi (secolo XIIXIV): un confronto (Roma-Chambery-Firenze, dicembre 2006-dicembre 2007), a cura di G. Castelnuovo, A. Zorzi, i.c.s. in “MEFRM”, CXXIII/2 (2011)

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Sono dunque riconoscibili due aree differenti per ritmi e per caratteristiche dell’evoluzione del sistema antroponimico. Della prima, centrata sulla Lombardia, fanno parte Veneto, Emilia, Liguria e Piemonte. Nella seconda rientrano certamente Toscana (finora la meglio studiata), Marche, Umbria e, forse, anche il Lazio6. Per ciascuna area si può enucleare un modello di riferimento coerente. Sebbene le varianti interne siano molto importanti, infatti, esse non si articolano in base ad ambiti regionali o sub-regionali (per esempio Emilia vs Lombardia o Toscana vs Marche), ma hanno una base cittadina (per esempio Firenze vs Roma o Cremona vs Bologna) oppure si articolano secondo linee di frattura di natura sociale (per esempio gruppi eminenti urbani vs ceti inferiori o cittadini vs rurali). A differenziare Nord-Italia e Italia Centrale sono sia i tempi di affermazione del cognomen (cioè i tempi del passaggio dal sistema a nome unico a quello a nome doppio), sia, soprattutto, le forme e le caratteristiche assunte dal secondo elemento, allorché esso si affermò. Solo in Italia Settentrionale la sua trasformazione in nome di famiglia fu, infine, un fenomeno maggioritario tra pieno e basso medioevo. 3. In Italia Settentrionale7 il superamento del nome unico fu precoce: già nel secolo XI, a partire dalle aristocrazie signorili (le prime ad impiegarlo), 6 Dai, per altro verso interessanti, contributi sul Lazio non sono riuscito a recuperare un quadro organico del funzionamento del sistema onomastico basso medievale riguardo alla questione che qui ci interessa, cfr. é. Hubert, Évolution générale de l’anthroponymie masculine à Rome du Xe au XIIIe siècle, in “MEFRM”, CVI (1994), pp. 573-594, T. di Carpegna, Le trasformazioni onomastiche e antroponimiche dei ceti dominanti a Roma nei secoli X-XII, ibid., pp. 595-640, Id., L’antroponomastica del clero a Roma nei secoli X-XII, in “MEFRM”, CX (1998), pp. 513-534 e S. Carocci, Cognomi e tipologia delle fonti. Note sulla nobiltà romana, ibid., pp. 173-181. 7 Per l’Italia Settentrionale, oltre a quelli citati di seguito, ho fatto riferimento a questi saggi: O. Guyotjeannin, L’onomastique émilienne (XIe-milieu XIIIe siècle). Le cas de Reggio Emilia d’après le fonds de San Prospero, in “MEFRM”, CVI (1994), pp. 381-446; P. Racine, À propos du système anthroponymique placentin (XIIe siècle), ibid., pp. 447-458; P. Corrarati, Nomi, individui, famiglie a Milano nel secolo XI, ibid., pp. 459-474; M. Montanari, Estimi e antroponimia medievale: il caso di Chieri (a. 1289), ibid., pp. 475-486; P. Corrarati, Percorsi dell’antroponimia familiare: Milano e il Milanese nel XII secolo, “MEFRM”, CVII (1995), pp. 497-512; O. Guyotjeannin, Problèmes de la dévolution du nom et du surnom dans les élites d’Italie centro-septentrionale (fin du XIIe-XIIIe siècle), ibid., pp. 557-594; F. Menant, Comment s’appelaient les habitants de Crémone vers le 1300? Contribution à l’histoire du nom de famille en Italie, in “MEFRM”, CX (1998), pp. 183-200.

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il cognomen si diffuse, dapprima in ambito urbano, poi negli insediamenti rurali maggiori (come la Monselice studiata da S. Bortolami8) e, infine, anche nelle stesse campagne9. Il nome doppio si affermò attraverso quattro canali: la comparsa di nomina paterna (come Petrus Alberti), l’uso di toponimici (come Petrus de Arsago), l’impiego di titoli o indicazioni di mestiere (come Petrus vicecomes o Petrus ferrarius) o il ricorso a soprannomi (come Petrus qui dicitur Grassus o, direttamente, Petrus Grassus). Fu a partire da queste tipologie di doppio nome – ancora personali, spesso instabili e comunque non ereditarie – che nacquero vere e proprie forme cognominali. Ciò avvenne con la trasformazione del secondo elemento da patronimico a nome di famiglia (come Petrus de Alberto o, in una fase più matura, Petrus de Albertis), con il distacco della designazione toponimica dall’effettiva residenza e dell’indicazione di mestiere da quello effettivamente esercitato o, infine, con la ripetizione del soprannome o la sua trasformazione in nome di famiglia (Petrus Grassus f. Petri Grassi o Petrus de Grasso, poi Petrus de Grassis). La necessità di sintesi impedisce di rendere giustizia alla qualità delle ricerche e agli elementi di complessità introdotti nelle varie analisi. Ci si deve limitare a notare, perciò, che nel complesso esse tracciano un panorama variegato e articolato localmente e socialmente, chiarendo inoltre le gravi difficoltà poste allo studio delle forme antroponimiche dalla tipologia delle fonti impiegate e dal forte condizionamento dell’inevitabile mediazione notarile tra pratiche quotidiane orali e loro precipitazione nei documenti scritti. Si tratta di elementi che consigliano prudenza nei confronti di modelli univoci e di affermazioni perentorie. Va sottolineata, in particolare, l’insistenza sulle rilevanti variabili locali nei tempi e nei modi della trasformazione: sebbene sia senz’altro riconoscibile un percorso comune nella direzione su delineata – quella che porta dal nome singolo al nome doppio e quindi al cognome –, tempi modi e generalità della trasformazione variarono sostanzialmente nelle varie località. Va inoltre notato che, ancora per un certo tempo dopo la comparsa del cognome, il patronimico non venne meno, mantenendo un proprio 8 S. Bortolami, L’evoluzione del sistema onomastico in una ‘quasi città’ del Veneto medioevale: Monselice (secoli X-XIII), in “MEFRM”, CVI (1994), pp. 343-380. 9 La questione della generalizzazione del fenomeno in ambito rurale resta comunque un problema aperto e che necessita di ulteriori indagini. Per un quadro d’insieme vd. F. Menant, L’anthroponymie du monde rural, in L’anthroponymie: document de l’histoire sociale, cit. pp. 349-363.